Nei luoghi
di lavoro l’autoritarismo è strutturale da decenni e quindi difficile spiegare
che oggi siamo di fronte a un suo incrudelimento. La precarietà ha poi
istituzionalizzato il ricatto intimidatorio: o accetti tutto o sei fuori. Sembrerebbe
quindi non necessaria una repressione del dissenso ancora più mirata e
organizzata e invece non è così. Nonostante il potere enorme accumulato in
questi anni, il sistema delle imprese sente il bisogno di colpire ogni
comportamento considerato dannoso per i suoi interessi e così l’autoritarismo
padronale sfocia sempre di più in aperto fascismo aziendale.
Prosperano
le agenzie investigative che offrono le proprie attività di spionaggio alle
imprese perché le utilizzino sui dipendenti. Sulla radio della Confindustria si
possono persino ascoltare gli spot pubblicitari di questi Pinkerton italiani,
ma naturalmente le aziende non si affidano solo agli enti esterni. Le imprese
più sono grandi e più istituiscono proprie funzioni dedicate al controllo dei dipendenti.
Sotto questo punto di vista il lavoro di spionaggio è paradossalmente agevolato
dalle reti sociali, Facebook Twitter etc, che sono costantemente monitorate da
addetti degli uffici personale per controllare l’orientamento dei dipendenti.
Questo non
solo nel lavoro privato, ma sempre di più anche in quello pubblico, dove sotto
le campagne contro i fannulloni dilaga la caccia alle streghe verso i
dissenzienti. Dilagano circolari e disposizioni interne che invitano i
dipendenti a non esprimere sui “social” opinioni sulle decisioni della pubblica
amministrazione di competenza, pena provvedimenti disciplinari. L’obbligo di
fedeltà è il principio guida della nuova stretta autoritaria. Non basta più
svolgere correttamente il proprio lavoro, bisogna dimostrare fedeltà. E la
infedeltà non è solo quella dello sciopero, ma qualsiasi forma di dissenso o di
comportamento non conforme ai dettati aziendali.
C’è un caso
simbolo che è stato l’apripista per tanti altri: il licenziamento di Riccardo
Antonini da parte delle Ferrovie dello Stato guidate dall’ex dirigente della
Cgil Mauro Moretti. Antonini dopo la strage ferroviaria di Viareggio mise le
sue competenze di tecnico aziendale al servizio dei familiari delle 32 vittime
bruciate vive dall’esplosione di un treno merci. L’azienda, i cui dirigenti son
sotto processo per la strage, lo licenziò per il venir meno dell’obbligo di
fedeltà aziendale e finora nessun giudice ha messo in discussione questa
tremenda decisione.
Dopo quello
di Antonini il licenziamento d’opinione e coscienza è dilagato, dagli uffici
della Fiat Mirafiori, alle officine emiliane, ai traporti di Roma. Fino ad un
delegato sindacale licenziato a Ferrara per irriverenza verso la controparte
durante una trattativa.
La
repressione autoritaria che oggi colpisce il lavoro è qualcosa in più della
rappresaglia o della intimidazione verso il conflitto. Siamo di fronte ad un
disegno di cancellazione del dissenso in qualsiasi forma, ad un progetto
totalitario che coinvolge il dipendente in ogni momento della sua vita. Non
solo la Costituzione è stata espulsa dal rapporto di lavoro, ma il dominio
padronale si impadronisce dell’intera persona del dipendente, che non è più
libero su nulla. Il lavoratore ha i vincoli della servitù della gleba, mentre
l’impresa ha dalla sua tutte le flessibilità egli arbitri della precarietà.
Ma se il
sistema è così totalitario perché la repressione si intensifica? Intanto perché
i conflitti non sono scomparsi, e le aziende oramai abituate al super
sfruttamento del lavoro sono vulnerabili. Le lotte dei facchini, in gran parte
migranti, della logistica sono il segno di una spinta alla lotta alla quale le
imprese rispondono spesso con violenza, ma anche con accordi nei quali devono
cedere. Alla Piaggio è stato licenziato da poco un delegato, migliaia sono i
provvedimenti disciplinari che colpiscono ogni forma di resistenza, soprattutto
sugli orari e la flessibilità. La spinta al totalitarismo si scontra quindi con
rabbia e disobbedienza diffuse, anche in forme elementari e non organizzate.
Da qui il
salto di qualità nella repressione, il cui compito, esattamente come in ogni
regime dittatoriale, è quello di individuare e colpire, possibilmente in modo
preventivo, chi potrebbe essere riferimento o guida del conflitto. Anche gli
accordi interconfederali diventano uno strumento di normalizzazione autoritaria.
Quello del
10 gennaio 2014 tra Confindustria e Cgil Cisl Uil, che ricalca le precedenti
intese separate in Fiat, stabilisce che i delegati sindacali di minoranza che
si ribellino ad un accordo siano passibili di sanzioni. Guai a chi non si
adegua al regime.
Siamo di
fronte alla pulizia ideologica dei luoghi di lavoro. Chi viene licenziato per
motivi disciplinari non troverà mai più un’occupazione, perché le aziende si
scambiano liste nere e informazioni. Una pratica questa che parte addirittura dalle
agenzie interinali e di collocamento privato. Se un precario fa causa
all’azienda che lo ha pagato meno del dovuto, chissà perché, non vien più
chiamato per altri lavori. Non sarà che questa notizia viene registrata ed
entra a far parte del curriculum nero della persona, quello su cui le aziende
si informano?
Negli anni
50 del secolo scorso il capo della Fiat Vittorio Valletta, che perseguitava
comunisti, socialisti e FIOM, divideva i lavoratori in costruttori e
distruttori. Questi ultimi avrebbero dovuto essere totalmente eliminati
nell’azienda. A tale scopo centinaia di migliaia di persone furono schedate
dalla Fiat per capire quanti distruttori si nascondessero tra di esse. Giuseppe
Di Vittorio chiamò tutto questo fascismo e oggi si è troppo cauti nell’usare un
linguaggio adeguato per definire la terribile oppressione che colpisce il
lavoro.
La
legislazione di questi anni, ultimo il Jobsact, non solo ha avuto la funzione
di distruggere le tutele del lavoro e rafforzare gli arbìtri dell’impresa, a
partire dalla libertà di licenziamento. Ma l’effetto di questa legislazione non
è stato solo quello diretto, ma anche quello simbolico. Tanti anni fa un
industriale torinese soleva intervenire nell’assemblea della sua associazione
dicendo: ” Voi mi dovete dare la pistola con il colpo in canna, poi io sono buono
e non la uso, ma i miei operai devono sapere che sono armato”. Con la
distruzione dell’articolo 18 le armi sono sempre spianate contro il lavoro e la
parola resistenza assume un significato attuale e modernissimo.
Giorgio Cremaschi
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