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sabato 27 dicembre 2014

MARCO TRAVAGLIO NEWS




ARTICOLO 18 E JOBS ACT RIVOLUZIONE A METÀ: MENO DIRITTI PER TUTTI
IL RITORNO IN AZIENDA RESTA PER POCHI CASI: AGLI ALTRI LICENZIATI INGIUSTAMENTE SOLO UN RISARCIMENTO MASSIMO DI 24 MENSILITÀ. E I SOLDI PER I SUSSIDI NON AUMENTANO
di Stefano Feltri e Marco Palombi
A due giorni dal Consiglio dei ministri della vigilia di Natale arrivano le prime reazioni ai due decreti legislativi con cui il governo attua la legge delega sul Jobs Act. Secondo la Cgil le misure presentate dal premier Matteo Renzi danno “il via libera alle imprese a licenziare in maniera discrezionale lavoratori singoli e gruppi di lavoratori”. I decreti sono due: uno riforma l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e tutta la disciplina sul contenzioso tra impresa e lavoratore licenziato. Il secondo è dedicato agli ammortizzatori sociali, le misure di sostegno che scattano quando si perde il lavoro, e introducono la “Naspi, Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego” (riguarda solo i dipendenti, statali esclusi). Dopo il Consiglio dei ministri, Renzi ha annunciato una “rivoluzione copernicana” e ha spiegato che “nessun imprenditore può dire che c'è in Italia un sistema che disincentiva la libera azienda”. Il Nuovo centrodestra, con Maurizio Sacconi, avrebbe voluto anche la clausola dell’opting out, cioè la possibilità per il datore di lavoro di aggirare il residuo obbligo di reintegro in caso di licenziamento ingiusto sostituendolo con un maxi-risarcimento economico. Le norme si applicano ai nuovi assunti, ma nei decreti ci sono incentivi a favorire il cambiamento del mercato del lavoro per assoggettare quante più persone possibili alla nuova disciplina. Qui sotto vi spieghiamo cosa cambia.
COSA CAMBIA
Reintegro più difficile, tutele poco crescenti
Con il Decreto legislativo sulle tutele crescenti cambia la disciplina sui licenziamenti. Il giudice resta coinvolto, ma con meno poteri: può stabilire la nullità di un licenziamento (lo garantisce la Costituzione) ma anche nel caso di licenziamenti individuali senza giusta causa, come nella riforma Fornero, la discrezionalità tra reintegro sul posto di lavoro o risarcimento. Ma l’indennizzo monetario diventa l’esito di gran lunga più probabile.
SOLDI, NON REINTEGRO. La novità anche simbolica del decreto legislativo riguarda i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa. Il reintegro sul posto di lavoro, stabilito dal giudice, resta soltanto in un caso. Se il lavoratore riesce a dimostrare “direttamente” la “insussistenza del fatto materiale contestato”. Come spiega sul suo blog Pietro Ichino, è una novità rilevante: “Non basta che la decisione del giudice circa la radicale insussistenza del fatto contestato sia fondata su presunzioni. E soprattutto, non basta che la decisione del giudice si fondi sull’insufficienza della prova circa il fatto acquisita per documenti o per testimoni, ovvero sulla possibile sussistenza di un ragionevole dubbio circa la colpevolezza del lavoratore: quando di questo si tratti, il lavoratore avrà diritto soltanto all’indennizzo giudiziale, secondo la nuova regola generale, ma non alla reintegrazione”. Non c’è più il riferimento al contratto nazionale di categoria, che poteva prevedere tutele aggiuntive. Lo scopo sembra essere quello di scoraggiare il ricorso al giudice e spingere il lavoratore a trovare un accordo economico con l’azienda al momento del licenziamento.
QUANTO SI PUÒ INCASSARE. Chi ottiene una sentenza favorevole in caso di licenziamento discriminatorio, nullo o comunicato a voce e quindi inefficace, può avere una indennità che va da cinque mensilità e come massimo una cifra calcolata sulla base dell’ultima retribuzione per il periodo in cui il lavoratore è stato fuori dall’azienda, ma tolti i redditi da lavoro maturati nel frattempo. In caso di licenziamento senza giusta causa, se non viene accordato il reintegro, il giudice può stabilire un risarcimento economico pari a “due mensilità della retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio”, con un minimo di quattro mensilità e un massimo di 24. Tradotto: soltanto dopo 12 anni di servizio un dipendente può aspirare al risarcimento massimo in caso di licenziamento ingiusto. Sono le tutele crescenti: i dipendenti appena assunti sono licenziabili con un rischio economico minimo per l’azienda.
LICENZIAMENTI COLLETTIVI. C’è l’indennizzo invece del reintegro anche nel caso dei licenziamenti collettivi quando vengono violate le procedure o i criteri di scelta se il dipendente è stato assunto con le tutele crescenti, cioè con le nuove regole.
LA DIMENSIONE. Oggi le imprese con meno di 15 dipendenti non sono tenute ad applicare l’articolo 18 sul reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa. Con la riforma di Renzi anche per loro vige il sistema delle tutele crescenti ma il risarcimento massimo è limitato a sei mensilità.
SINDACATI E PARTITI. La nuova disciplina, a differenza di quella precedente, si applica anche a “datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, di istruzione ovvero di religione o di culto”. Fino a oggi i sindacati potevano non applicare lo Statuto dei lavoratori e l’articolo 18 ai loro dipendenti, ora dovranno usare il sistema delle tutele crescenti con possibilità di reintegro per il dipendente licenziato.
COSA NON CAMBIA
Ammortizzatori sociali, è diverso solo il nome
Per Matteo Renzi la faccenda si riassume così: “Più tutele a chi ne ha bisogno, più libertà a chi vuole investire: non lo riconosce solo chi è ideologico o in malafede”. In attesa di vedere quante assunzioni porterà la cancellazione dell’articolo 18 per i nuovi assunti, si può dire che l’estensione delle tutele è falsa. Il premier si riferisce, infatti, all’estensione degli ammortizzatori sociali anche ai lavoratori precari (ma non alle partite Iva, già colpite dalla stangata del nuovo regime dei minimi): peccato che nella maggior parte dei casi - come risulta dallo stesso decreto pubblicato dal governo - ci si limiti a cambiare nome a quelli esistenti.
NASPI. Al posto dell’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego) arriva il Nuovo Aspi o Naspi: si tratta sempre di una forma di sostegno al reddito per i lavoratori subordinati che perdono il posto pagato con apposite trattenute in busta paga. La sua durata massima passa da 12 mesi a quasi un anno e mezzo (78 settimane, per la precisione), ma l’importo dell’assegno cala. Non solo, come ha scritto Stefano Fassina nel suo blog su Huffington Post: “L’assegno scende a circa 400 euro al mese nel semestre finale: maggiore durata e minore importo si compensano per i più ‘fortunati’, gli altri ci perdono”. Insomma, non proprio un affare.
ASDI. Dopo la Naspi, c’è l’assegno di disoccupazione detto appunto Asdi. Per il momento si tratta solo di una sperimentazione tra maggio e dicembre 2015: ha durata massima di soli sei mesi e ammonta al 75% del trattamento Naspi, cioè circa 300 euro al mese. In sostanza si tratta del vecchio “sostegno all’inclusione attiva” appositamente rinominato. La concessione del sostegno è subordinato alla quantità di Isee familiare (deve essere molto basso) e all’adesione a un progetto personalizzato redatto da un centro per l’impiego, previsione straordinariamente fantasiosa stante l’attuale funzionamento di quegli enti e del mercato del lavoro. Come che sia, l’Asdi è l’unico capitolo su cui ci sono risorse nuove: nel decreto presente sul sito si parla di 300 milioni sul solo 2015 e si prevede che “all’eventuale estensione si provvede con risorse previste da successivi provvedimenti”. Fonti di governo, nei giorni scorsi, hanno riferito di problemi nel reperimento delle coperture sollevati dal Tesoro: il testo, ad ogni buon conto, è stato approvato “salvo intese” e dunque non è ancora definitivo.
DIS-COLL. È l’indennità di disoccupazione mensile per i precari (co.co.co. e co.co.pro., non le partite Iva e neanche le altre forme di contratti precari) che perderanno il lavoro durante il 2015. Si chiama Dis-Coll e più o meno ricalca la Nuova Aspi di cui abbiamo parlato prima: viene pagata in proporzione al numero di mesi in cui si erano versati i contributi (la metà), ma comunque per non più di sei. Anche questa nuova forma di sostegno al reddito è una sperimentazione valida solo per l’anno prossimo, anche perché nel frattempo dovrebbe arrivare un decreto attuativo che cancella le collaborazione coordinate (l’idea, vagamente ottimista, è che tutti passino a usare il contratto unico a tutele crescenti al posto di quelli precari, che pure resteranno in vita). Anche in questo caso si tratta, comunque, della rimodulazione di un ammortizzatore già esistente, solo che quello che prima era un pagamento forfettario viene rateizzato mensilmente. Nello stesso decreto viene chiarito che su questo capitolo non ci sono risorse aggiuntive, anzi viene finanziata con “quelle già previste per il finanziamento della tutela del sostegno al reddito dei co.co.co”.

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