ARTICOLO
18 E JOBS ACT RIVOLUZIONE A METÀ: MENO DIRITTI PER TUTTI
IL
RITORNO IN AZIENDA RESTA PER POCHI CASI: AGLI ALTRI LICENZIATI INGIUSTAMENTE
SOLO UN RISARCIMENTO MASSIMO DI 24 MENSILITÀ. E I SOLDI PER I SUSSIDI NON
AUMENTANO
di
Stefano Feltri e Marco Palombi
A due giorni
dal Consiglio dei ministri della vigilia di Natale arrivano le prime reazioni
ai due decreti legislativi con cui il governo attua la legge delega sul Jobs
Act. Secondo la Cgil le misure presentate dal premier Matteo Renzi danno “il
via libera alle imprese a licenziare in maniera discrezionale lavoratori
singoli e gruppi di lavoratori”. I decreti sono due: uno riforma l’articolo 18
dello Statuto dei lavoratori e tutta la disciplina sul contenzioso tra impresa e
lavoratore licenziato. Il secondo è dedicato agli ammortizzatori sociali, le
misure di sostegno che scattano quando si perde il lavoro, e introducono la
“Naspi, Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego” (riguarda
solo i dipendenti, statali esclusi). Dopo il Consiglio dei ministri, Renzi ha
annunciato una “rivoluzione copernicana” e ha spiegato che “nessun imprenditore
può dire che c'è in Italia un sistema che disincentiva la libera azienda”. Il
Nuovo centrodestra, con Maurizio Sacconi, avrebbe voluto anche la clausola
dell’opting out, cioè la possibilità per il datore di lavoro di aggirare il
residuo obbligo di reintegro in caso di licenziamento ingiusto sostituendolo
con un maxi-risarcimento economico. Le norme si applicano ai nuovi assunti, ma
nei decreti ci sono incentivi a favorire il cambiamento del mercato del lavoro
per assoggettare quante più persone possibili alla nuova disciplina. Qui sotto
vi spieghiamo cosa cambia.
COSA
CAMBIA
Reintegro
più difficile, tutele poco crescenti
Con il Decreto
legislativo sulle tutele crescenti cambia la disciplina sui licenziamenti. Il
giudice resta coinvolto, ma con meno poteri: può stabilire la nullità di un
licenziamento (lo garantisce la Costituzione) ma anche nel caso di
licenziamenti individuali senza giusta causa, come nella riforma Fornero, la
discrezionalità tra reintegro sul posto di lavoro o risarcimento. Ma
l’indennizzo monetario diventa l’esito di gran lunga più probabile.
SOLDI,
NON REINTEGRO. La novità
anche simbolica del decreto legislativo riguarda i licenziamenti per
giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa. Il reintegro sul
posto di lavoro, stabilito dal giudice, resta soltanto in un caso. Se il
lavoratore riesce a dimostrare “direttamente” la “insussistenza del fatto materiale
contestato”. Come spiega sul suo blog Pietro Ichino, è una novità rilevante:
“Non basta che la decisione del giudice circa la radicale insussistenza del
fatto contestato sia fondata su presunzioni. E soprattutto, non basta che la
decisione del giudice si fondi sull’insufficienza della prova circa il fatto
acquisita per documenti o per testimoni, ovvero sulla possibile sussistenza di
un ragionevole dubbio circa la colpevolezza del lavoratore: quando di questo si
tratti, il lavoratore avrà diritto soltanto all’indennizzo giudiziale, secondo
la nuova regola generale, ma non alla reintegrazione”. Non c’è più il
riferimento al contratto nazionale di categoria, che poteva prevedere tutele
aggiuntive. Lo scopo sembra essere quello di scoraggiare il ricorso al giudice
e spingere il lavoratore a trovare un accordo economico con l’azienda al
momento del licenziamento.
QUANTO
SI PUÒ INCASSARE. Chi
ottiene una sentenza favorevole in caso di licenziamento discriminatorio, nullo
o comunicato a voce e quindi inefficace, può avere una indennità che va da
cinque mensilità e come massimo una cifra calcolata sulla base dell’ultima
retribuzione per il periodo in cui il lavoratore è stato fuori dall’azienda, ma
tolti i redditi da lavoro maturati nel frattempo. In caso di licenziamento
senza giusta causa, se non viene accordato il reintegro, il giudice può
stabilire un risarcimento economico pari a “due mensilità della retribuzione
globale di fatto per ogni anno di servizio”, con un minimo di quattro mensilità
e un massimo di 24. Tradotto: soltanto dopo 12 anni di servizio un dipendente
può aspirare al risarcimento massimo in caso di licenziamento ingiusto. Sono le
tutele crescenti: i dipendenti appena assunti sono licenziabili con un rischio
economico minimo per l’azienda.
LICENZIAMENTI
COLLETTIVI. C’è
l’indennizzo invece del reintegro anche nel caso dei licenziamenti collettivi
quando vengono violate le procedure o i criteri di scelta se il dipendente è
stato assunto con le tutele crescenti, cioè con le nuove regole.
LA
DIMENSIONE. Oggi le
imprese con meno di 15 dipendenti non sono tenute ad applicare l’articolo 18
sul reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa. Con la riforma di
Renzi anche per loro vige il sistema delle tutele crescenti ma il risarcimento
massimo è limitato a sei mensilità.
SINDACATI
E PARTITI. La nuova
disciplina, a differenza di quella precedente, si applica anche a “datori di
lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura
politica, sindacale, di istruzione ovvero di religione o di culto”. Fino a oggi
i sindacati potevano non applicare lo Statuto dei lavoratori e l’articolo 18 ai
loro dipendenti, ora dovranno usare il sistema delle tutele crescenti con
possibilità di reintegro per il dipendente licenziato.
COSA
NON CAMBIA
Ammortizzatori
sociali, è diverso solo il nome
Per Matteo
Renzi la faccenda si riassume così: “Più tutele a chi ne ha bisogno, più
libertà a chi vuole investire: non lo riconosce solo chi è ideologico o in
malafede”. In attesa di vedere quante assunzioni porterà la cancellazione
dell’articolo 18 per i nuovi assunti, si può dire che l’estensione delle tutele
è falsa. Il premier si riferisce, infatti, all’estensione degli ammortizzatori
sociali anche ai lavoratori precari (ma non alle partite Iva, già colpite dalla
stangata del nuovo regime dei minimi): peccato che nella maggior parte dei casi
- come risulta dallo stesso decreto pubblicato dal governo - ci si limiti a
cambiare nome a quelli esistenti.
NASPI. Al
posto dell’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego) arriva il Nuovo Aspi o
Naspi: si tratta sempre di una forma di sostegno al reddito per i lavoratori
subordinati che perdono il posto pagato con apposite trattenute in busta paga.
La sua durata massima passa da 12 mesi a quasi un anno e mezzo (78 settimane,
per la precisione), ma l’importo dell’assegno cala. Non solo, come ha scritto
Stefano Fassina nel suo blog su Huffington Post: “L’assegno scende a circa 400
euro al mese nel semestre finale: maggiore durata e minore importo si
compensano per i più ‘fortunati’, gli altri ci perdono”. Insomma, non proprio
un affare.
ASDI. Dopo
la Naspi, c’è l’assegno di disoccupazione detto appunto Asdi. Per il momento si
tratta solo di una sperimentazione tra maggio e dicembre 2015: ha durata
massima di soli sei mesi e ammonta al 75% del trattamento Naspi, cioè circa 300
euro al mese. In sostanza si tratta del vecchio “sostegno all’inclusione
attiva” appositamente rinominato. La concessione del sostegno è subordinato
alla quantità di Isee familiare (deve essere molto basso) e all’adesione a un
progetto personalizzato redatto da un centro per l’impiego, previsione
straordinariamente fantasiosa stante l’attuale funzionamento di quegli enti e
del mercato del lavoro. Come che sia, l’Asdi è l’unico capitolo su cui ci sono
risorse nuove: nel decreto presente sul sito si parla di 300 milioni sul solo
2015 e si prevede che “all’eventuale estensione si provvede con risorse
previste da successivi provvedimenti”. Fonti di governo, nei giorni scorsi,
hanno riferito di problemi nel reperimento delle coperture sollevati dal
Tesoro: il testo, ad ogni buon conto, è stato approvato “salvo intese” e dunque
non è ancora definitivo.
DIS-COLL. È
l’indennità di disoccupazione mensile per i precari (co.co.co. e co.co.pro.,
non le partite Iva e neanche le altre forme di contratti precari) che
perderanno il lavoro durante il 2015. Si chiama Dis-Coll e più o meno ricalca
la Nuova Aspi di cui abbiamo parlato prima: viene pagata in proporzione al
numero di mesi in cui si erano versati i contributi (la metà), ma comunque per
non più di sei. Anche questa nuova forma di sostegno al reddito è una
sperimentazione valida solo per l’anno prossimo, anche perché nel frattempo
dovrebbe arrivare un decreto attuativo che cancella le collaborazione coordinate
(l’idea, vagamente ottimista, è che tutti passino a usare il contratto unico a
tutele crescenti al posto di quelli precari, che pure resteranno in vita).
Anche in questo caso si tratta, comunque, della rimodulazione di un
ammortizzatore già esistente, solo che quello che prima era un pagamento
forfettario viene rateizzato mensilmente. Nello stesso decreto viene chiarito
che su questo capitolo non ci sono risorse aggiuntive, anzi viene finanziata
con “quelle già previste per il finanziamento della tutela del sostegno al
reddito dei co.co.co”.
Nessun commento:
Posta un commento
Cara lettrice, caro lettore,
abbiamo deciso di porre alcuna restrizione ai commenti: chiunque può commentare come meglio ritiene, anche in forma anonima, i post di CUBlog. Tuttavia apprezziamo sia la buona educazione (anche nel dissenso più aspro) sia la vostra firma.
La Redazione di CUBlog