Editoriale
di Sergio Bellavita
Nel
direttivo nazionale del 18 si è nuovamente celebrata l’unità tra Susanna
Camusso e Maurizio Landini. Segno di una ritrovata radicalita’ che cementa i
gruppi dirigenti? Tutt’altro, quella che ormai è molto di più di una semplice
convergenza, si celebra sulla crisi più profonda del maggiore sindacato
italiano. La Camusso è semplicemente in attesa di poter consegnare il cerino
incandescente della gestione di un’organizzazione senza più spinta vitale, in
cui la regola è ognuno faccia come meglio crede o come meglio può. Il tentativo
della Camusso di traghettare la Cgil nel sistema della complicità sindacale è
stato infranto dalla durezza di una crisi economica e sociale che ha sconvolto il sistema stesso su cui hanno poggiato per un lungo
tempo i cosiddetti corpi intermedi. I “grandi” accordi interconfederali che hanno
segnato la guida Camusso, dal 28 giugno 2011 al testo unico del 10 gennaio 2014
non solo non hanno centrato nessuno degli obbiettivi declamati, sull’altare dei
quali è bene ricordarlo si è regalato il contratto nazionale dei lavoratori, la
libertà sindacale e il diritto di sciopero ai padroni, ma non sono riusciti ad
affermarsi come modello andando subito in crisi. Landini ha vissuto per anni
con il valore straordinario del No di pomigliano e mirafiori. Un no di grande
valore sul piano generale ma che non è andato oltre. Le pratiche concrete, pur
di riconquistare il titolo di sindacato responsabile dopo la cacciata dalla
Fiat , sono divenute sempre più simili a quelle del resto delle categorie della
Cgil “ognuno faccia quel che può”, sino
a praticare la contrattazione di restituzione che sta riducendo salari e
diritti ovunque. La battaglia contro Marchionne tanto tenace sul piano legale
tanto evanescente sul piano sindacale, pur avendo incassato vittorie legali di
grande valore generale su democrazia e rappresentanza non ha scalfito il
modello di super sfruttamento che si è imposto sulla condizione dei lavoratori.
Sia la Camusso che Landini non possono rivendicare un bilancio positivo delle
loro scelte e questo li unisce, soprattutto in questa fase di crescente
irrilevanza del sindacato. Entrambi vorrebbero rientrare ma gli spazi di
rientro si restringono sempre di più e sono sempre più insostenibili. L’ordine
del giorno Camusso condiviso da Landini nel direttivo del 18 febbraio ha una
corposita’ inversamente proporzionale alle scelte reali ed alla loro
radicalità. La denuncia del carattere
inedito e drammatico della fase e della durezza dei provvedimenti del
governo si risolve in una terminologia burocratica e altisonante per coprire il
vuoto totale dell’iniziativa, che ovviamente non esclude il ricorso a qualche
ora di sciopero a copertura della ritirata. La consultazione dei lavoratori per
chiedere loro se vogliono il referendum abrogativo del jobs act è la foglia di
fico in questo quadro che comunque vada scarica sui lavoratori la responsabilità delle colpevoli
mancate scelte dei gruppi dirigenti di vera continuità delle lotte contro il
jobs act. Landini si è accontentato della mobilitazione di testimonianza della
cgil dell’autunno scorso risolta nel adesione critica al nuovo modello. Non a
caso il direttivo ha deciso l’ingresso della Cgil nelle commissioni di
conciliazione della legge 30 osteggiate sono a ieri. Un po’ poco per portare la
Fiom al matrimonio con la Camusso. Siamo sotto il minimo sindacale.
Tratto
dal sito :http://sindacatounaltracosa.org
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