Un
moderno sistema di relazioni industriali. Così si intitola il manifesto
neo-corporativo che i sindacati confederali consegnano al padronato per
sopravvivere al discredito e all’impotenza generati dalla loro ignoranza e dai
loro tradimenti.
Articolo
di Alessandro Bartoloni dal sito : LA CITTA’ FUTURA.IT
Il passaggio
dalla prima alla seconda repubblica è stato segnato da grandi cambiamenti. Uno
di questi è la ridefinizione dei rapporti tra lavoratori e imprenditori per
mezzo dei famigerati accordi dei primi anni novanta. Nell’attuale fase storica,
che molti descrivono come passaggio dalla seconda alla terza repubblica, non
poteva mancare anche la riscrittura di tali relazioni. Siamo appena agli inizi
e dalle sprezzanti parole che Squinzi riserva al documento non è detto che il
confronto tra sindacati e associazioni padronali vada avanti così come
impostato dai confederali. Tutto dipende dall’evoluzione della situazione
economica, dai rapporti di forza e dalla lotta di classe. L’inasprimento della
crisi o l’eccessiva arrendevolezza da parte dei lavoratori potrebbero suggerire
soluzioni diverse, ancor più unilaterali e individualizzanti, “tendenti a
vanificare il ruolo della contrattazione, a partire dai contenuti delle leggi”.
Tuttavia, leggendo le proposte avanzate dai Cgil, Cisl e Uil nel documento
intitolato “Un
moderno sistema di relazioni industriali” non c’è da aspettarsi che il peggio da parte di quelli che una volta
erano i nostri. La lunga stagione di collusione si conclude col peggior
collaborazionismo e il disarmo teorico nell’incapacità di comprendere gli
effetti che la riorganizzazione produttiva in atto sta avendo in Italia. Privi
dell’autorevolezza per venir posti quali rappresentanti legittimati
direttamente dai lavoratori, i confederali cercano nella controparte padronale
l’autorità necessaria alla propria sopravvivenza. Non a caso il documento non è
stato discusso con i lavoratori ma presentato direttamente alle associazioni
imprenditoriali.
Per quanto
riguarda la Cgil la mutazione genetica è finalmente compiuta. Si abbandona la
stessa idea di rivendicazioni fondate sulla coscienza dell’immanente
antagonismo tra capitale e lavoro per farsi garanti dell’ulteriore
depauperamento delle condizioni retributive e lavorative dei salariati,
abbracciando la più bieca e ipocrita unione di intenti con il punto di vista e
gli interessi padronali. Già il sottotitolo del documento “per uno sviluppo
economico fondato sull’innovazione e la qualità del lavoro” è agghiacciante.
Neanche un accenno alla piena occupazione o, per dirla in maniera più
scientifica, al pieno sfruttamento di tutta la forza-lavoro disponibile. Eppure
qualcuno, per lo meno nella Fiom, dovrebbe ricordare che il plusvalore aumenta
se si incrementa il tempo di lavoro, dunque anche la forza-lavoro occupata. Se
aumenta solo in virtù dello sviluppo delle forze produttive è perché diminuisce
la parte della giornata lavorativa destinata a riprodurre il valore della
forza-lavoro, vale a dire il salario. A meno che non si voglia spacciare per
produttività il volgare aumento del lavoro estorto agli operai che si ottiene
attraverso l’incremento dei ritmi e della saturazione oppure attraverso la
diminuzione dei tempi morti.
Come per la
produttività, anche il richiamo alla flessibilità è ipocrita e dannoso. I
confederali si dicono pronti ad “esercitare la rappresentanza e la tutela di
tutte le forme contrattuali presenti nello stesso luogo di lavoro, superando le
divisioni tra lavoro maggiormente tutelato e le forme più precarie, per
affermare una effettiva parità di diritti ed una reale stabilità
dell’occupazione”. Le disparità di trattamento tra lavoratori che svolgono
mansioni uguali, dunque, non avrebbero origine dall’insanabile contrasto tra
l’esigenza di accumulare profitto e lo sviluppo delle forze produttive e dei
consumi – che richiede la presenza di un serbatoio di forza-lavoro flessibile e
continuamente disponibile per rimanere competitivi al mutare delle condizioni
di mercato – ma dal deficit di rappresentanza. Con buona pace dei lavoratori,
una volta sanato questo vulnus, il precariato può continuare ad esistere senza
più contrasti da parte confederale, in modo da garantire ai padroni la necessaria
flessibilità e arbitrarietà nell’uso, nell’acquisto e nel pagamento della
forza-lavoro. La flessibilità, infatti, non deve più esser ricondotta ad
esigenze eccezionali e temporanee delle imprese bensì “ai suoi autentici
obiettivi, relativi allo sviluppo della produttività e di una competitività
fondata sulla ricerca, sull’innovazione, sulla qualificazione e valorizzazione
delle risorse umane e sulla crescita del valore aggiunto”. La flessibilità come
condizione per la crescita dei profitti.
I
confederali, ignorando l’inevitabile de-qualificazione e de-specializzazione
connesse al trasferimento di abilità dal lavoro vivo alle macchine, auspicano
“la ricerca di una maggiore produttività attraverso un investimento sulla
risorsa lavoro” e non “svalorizzandone il contenuto” e di conseguenza “un
ampliamento dell’esperienza compiuta in questi anni sul salario di
produttività”. In questo modo il salario non viene più posto come prezzo per la
riproduzione sociale della forza-lavoro determinato dal valore dei mezzi di
sussistenza e dalla concorrenza tra le braccia disponibili sul mercato. Al suo
posto viene messo un prezzo corrispondente al presunto apporto dato dal lavoro
del singolo al conseguimento del prodotto, occultando così lo scambio ineguale
tra capitale e (uso della) forza-lavoro, ossia lo sfruttamento.
Questa
mistificazione è alla base della “logica della salvaguardia del potere di
acquisto, che nasceva da una esigenza di contenimento salariale in anni di alti
tassi di inflazione” e che ha governato l’azione sindacale dai tempi della
svolta dell’Eur. Logica stupefacente! Si moderano i salari per abbassare il
tasso di inflazione, in ossequio agli equivoci dominanti nella scienza
economica borghese, e contemporaneamente si dice di tutelare il potere di acquisto
dei lavoratori. Per il futuro, invece, “le dinamiche salariali dovranno
contribuire all’espansione della domanda interna, a contrastare le pressioni
deflattive sull’economia nazionale, a stimolare la competitività delle imprese
e la loro capacità di creare lavoro stabile e qualificato, nonché a valorizzare
l’apporto individuale e collettivo delle lavoratrici e dei lavoratori”. A
diminuire le disuguaglianze tra chi vive di salario e chi vive di profitto o
rendita, neanche a parlarne. Si rischierebbe di ricadere nel “vecchio” sistema
di relazioni industriali fondato sul conflitto e magari richiedere indietro una
quota maggiore del plusvalore prodotto dagli operai e democraticamente
utilizzato dai padroni.
Di
conseguenza, il salario diretto viene determinato nel contratto nazionale sulla
base “delle dinamiche macroeconomiche, non solo riferite all’inflazione” e
“degli andamenti settoriali” e nel contratto di secondo livello sulla base
della performance aziendale, collettiva e individuale. Il riferimento ai Ccnl,
però, non deve ingannare. “L’esperienza di questi anni suggerisce un sistema
generale di regole basilari, sulle quali poter innestare in modo flessibile gli
adeguamenti/aggiornamenti necessari, realizzando così una effettiva
complementarietà fra tutti i livelli” contrattuali. Una flessibilità al
ribasso, come dimostrano i vari accordi sulla rappresentanza firmati in questi
anni, destinata a svuotare di senso il Ccnl. Non a caso “l’obiettivo di Cgil, Cisl
e Uil è quello di rafforzare, quantitativamente, attraverso una sua maggiore
estensione e, qualitativamente, attraverso un regolato trasferimento di
competenze, la contrattazione di secondo livello”. E per contribuire alla sua
implementazione, va addirittura “prevista da parte dei Ccnl la possibilità di
effettuazione della contrattazione a livello aziendale, di gruppo, di sito, di
unità produttiva/operativa”.
A sostenere
il salario indiretto e differito, invece, ci penserà direttamente il welfare
aziendale, opportunamente contrattualizzato in modo da permettere anche ai
confederali di partecipare al banchetto, essendo co-gestori dei fondi ai quali
i lavoratori dovranno rivolgersi per avere servizi decenti. Al di là delle
frasi di rito, siamo di fronte al completo abbandono di qualunque difesa del
servizio sanitario nazionale e della pensione erogata dallo stato,
progressivamente integrati per poi essere sostituiti. “Occorre rilanciare il
ruolo del secondo pilastro per assicurare più elevati livelli di copertura
previdenziale”, non certo combattere per un ritorno al sistema retributivo.
“Occorre favorire lo sviluppo di condizioni che consentano di contemperare
l’obiettivo di migliorare la tutela e la reddittività dei patrimoni con
l’interesse generale a convogliare una quota maggiore del risparmio
previdenziale a sostegno dell’economia reale e dell’occupazione”. Incentivando
tali fondi e tacendo i pericoli connessi ad investimenti non profittevoli,
l’adeguatezza della prestazione previdenziale alle esigenze dei lavoratori
viene subordinata alla massimizzazione dei contributi versati per venire
incontro alle necessità dei loro utilizzatori capitalisti. Dal canto loro, i
fondi di sanità integrativa, “attraverso il convenzionamento con le strutture
pubbliche, possono rappresentare un fattore di sostegno del sistema universale
di tutela”. Quando gli addetti ai lavori sanno benissimo che la commistione
pubblico-privato, anche relativa alle prestazioni lavorative dei medici,
determina inevitabilmente un trasferimento di ricchezza dal primo al secondo.
Insomma, i
confederali propongono un “nuovo sistema di diritti di cittadinanza” che
include anche “percorsi di alternanza scuola/lavoro”. Anche in questo caso
abbiamo fondi paritetici interprofessionali che possono svolgere il triplice
obiettivo di portare fondi nelle casse confederali, “valorizzare il lavoro
assumendo il diritto all’apprendimento e alla formazione permanente” e
“rispondere efficacemente ad un ruolo di promozione culturale rispetto ad un
nuovo ed innovativo sistema di relazioni industriali”. Quest’ultimo obiettivo
realizzato attraverso “iniziative formative che coinvolgano in modo più diffuso
il maggior numero possibile di delegati sindacali” fino ad arrivare alla
“formazione congiunta: iniziative co-progettate e co-gestite tra le parti
sociali e che si rivolgono sia ai delegati sindacali che al management
aziendale”. E stroncare sul nascere l’autonomo sviluppo di un pensiero critico
rispetto alla gestione delle aziende o dell’operato del sindacato.
Che si
tratti di vero e proprio indottrinamento lo si capisce dal richiamo al diritto
dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende. “Dato il fine
dell’armonia tra elevazione economica e sociale del lavoro e le esigenze della
produzione” si abbandona qualunque richiamo al superamento non solo dello
sfruttamento ma anche dell’anarchia che governa i rapporti tra i capitalisti.
Dal testo dei confederali, infatti, è evidente che la partecipazione al governo
delle aziende è richiesta per permettere a queste di “misurarsi in termini
competitivi in uno scenario globale” e per esorcizzare la paura “della esigenza
ineludibile per l’intero sistema di imprese del nostro paese di assumere e
governare scelte strategiche e complesse”. Sono queste, infatti, che hanno
causato il continuo scivolamento dell’Italia nella divisione internazionale del
lavoro e saranno queste a determinare la composizione e la qualificazione della
forza-lavoro nei prossimi lustri. Consapevoli di essere di fronte ad “una
‘rivoluzione tecnologica e digitale permanente’ che abbatte i cicli temporali
tradizionali, che richiede velocità decisionale e gestionale e processi
continui di trasformazione e adattamento delle imprese stesse”, i confederali
che fanno? Invece di ricordare che il problema, per i lavoratori, non è la
ristrutturazione produttiva in quanto tale ma la sua subordinazione al fine
privatistico dell’accumulazione di profitto, propongono l’estensione della
bilateralità quale “modello di partecipazione nei sistemi diffusi di impresa” e
il modello duale per dare “piena e formale cittadinanza nelle decisioni ai
rappresentanti espressi/eletti dai lavoratori”. In questo modo si fa cassa e si
impone ai lavoratori di partecipare alla definizione delle scelte lacrime e
sangue, insostenibili e criminali che inevitabilmente caratterizzano qualunque
impresa operante in un paese capitalistico.
E a chi non
si lascia abbindolare o convincere, a chi dissente, che succederà? Ci penserà
il legislatore, a cui viene richiesto il “recepimento di quanto definito dalle
parti sociali”, in particolare di tradurre in legge quanto stabilito dal testo unico sulla rappresentanza, alla cui analisi si rimanda anche
per tutto ciò che concerne l’esigibilità dei contratti e i diritti dei
rappresentanti. “Su queste basi è possibile rilanciare un progetto di unità
sindacale”.
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