Articolo
di Marco Bascetta (ILMANIFESTO 01.10.2015)
Lavoro
gratuito. Se si ammette lo scambio diretto tra il lavoro e un debito che non
può essere pagato, si attenta alla libertà della persona. Come nella Francia.
Prima della rivoluzione.
Capita oggi
con lo «Sblocca Italia»
La macchina
infernale del lavoro gratuito, saldamente piantata nel cuore del sistema-paese,
si va arricchendo di un settore molto promettente nella sostituzione di quello
retribuito, a vantaggio delle amministrazioni comunali.
retribuito, a vantaggio delle amministrazioni comunali.
Si tratta
del cosiddetto «baratto amministrativo», fondato sull’articolo 24 del decreto
Sblocca-Italia. Si prevede che singoli e associazioni possano proporre
interventi, «pulizia, manutenzione, abbellimento di aree verdi, piazze, strade
ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di
interesse generale», in cambio di sconti fiscali.
Con una
interpretazione alquanto estensiva, per non dire capziosa di questa generica
norma, diverse amministrazioni comunali vi hanno scovato lo strumento per
recuperare crediti fiscali altrimenti inesigibili. Tra i primi a sperimentare
questa strada fu un comune della provincia di Novara che aveva offerto a un
cittadino in arretrato con la Tasi e il canone di affitto di un appartamento
comunale di sdebitarsi svolgendo gratuitamente lavori di manutenzione.
L’episodio fu prontamente celebrato su diversi organi di stampa come edificante
esempio di collaborazione tra cittadini e istituzioni pubbliche, come nuova
forma di partecipazione, sia pure non proprio volontaria, ai bisogni della
collettività.
Nei giorni
scorsi, due comuni importanti, quello di Milano e quello di Bari, (quest’ultimo
su sollecitazione dei 5Stelle) si sono accodati alla pratica del baratto
amministrativo, non in cambio di sconti fiscali ma a saldo di debiti pregressi
contratti da soggetti in difficoltà economica.
Non ci è
ancora dato sapere quali saranno le condizioni del baratto e cioè l’equivalente
monetario dell’ora lavorata nell’estinzione del debito e le condizioni di
lavoro. Ma dobbiamo ragionevolmente supporre che risulteranno più vantaggiose
per l’ente pubblico di quelle del lavoro retribuito garantito da contratti
collettivi e protetto da organizzazioni sindacali. Il debitore si trova infatti
in una oggettiva condizione di debolezza, non deve avere ma restituire, il suo
potere di contrattazione è pari a zero.
L’uso delle
parole è ormai correntemente abusivo e fuorviante, quando non puro e semplice
fumo negli occhi. Il baratto è infatti notoriamente uno scambio tra eguali che,
per definizione, non implica relazioni di obbligatorietà né risarcimento di
debiti monetari. Men che meno comporta risvolti punitivi. Del resto la generosa
offerta dei Comuni non si rivolge certo agli evasori fiscali, ma alla
cosiddetta «insolvenza incolpevole». Vale a dire al contribuente che non è
stato in grado, per avverse condizioni o, peggio, per sproporzione permanente
tra il proprio reddito e la pressione fiscale cui è sottoposto, di saldare il
debito. Qualcuno ha ragionevolmente introdotto, in questi casi, il termine di
elusione o evasione «per necessità», suscitando generale indignazione. La
prestazione lavorativa richiesta a questi soggetti non ha dunque alcun
carattere volontario o propositivo e, men che meno, di baratto. Si tratta,
insomma, di una forma mascherata di coazione, che esclude qualunque valutazione
sulla sostenibilità sociale del debito e sull’equità fiscale del sistema.
Il termine
che meglio si adatta a queste pratiche è l’antico istituto della corvée che
imponeva una certa quantità di lavoro gratuito come tributo da versare al
feudatario o, più precisamente ancora, la corvée royale istituita nel 1738 per
costringere i contadini a un «lavoro socialmente utile» e decisamente
«pubblico», ossia la manutenzione delle strade. Obbligo abolito, non a caso,
nel 1789 e ripristinato a rivoluzione conclusa. Allora, come oggi, la
possibilità di versare tributi in forma di lavoro gratuito piuttosto che in
forma monetaria veniva considerata una generosa concessione nei confronti dei
vassalli.
Nel caso del
«baratto amministrativo», poi, non si tratta nemmeno di versare un tributo, ma
di saldare un debito pregresso. Lo schema ricalca dunque quella «servitù
debitoria” attraverso la quale i possidenti caraibici del XVII secolo si
assicuravano il servaggio dei migranti più poveri, acquistando sul mercato il debito
contratto con gli armatori in cambio del viaggio. Pur celandosi dietro una
parvenza di contratto a termine si trattava di fatto di una forma, spesso
feroce e il più delle volte inestinguibile, di schiavitù. Tuttora diffusissima
nel mondo della tratta di esseri umani, migranti e non.
E’ ovvio che
il paragone è una pura e semplice forzatura, una provocazione. Ma, sul piano
dei principi, ha un senso ben preciso. Se si ammette lo scambio diretto tra il
lavoro e un debito che non può essere pagato altrimenti, che sia nei confronti
di un privato o di un ente pubblico, si attenta inevitabilmente alla libertà
della persona. Si certifica che i suoi diritti sono subordinati a quelli dei
creditori. E si sblocca, in una forma o nell’altra, il ritorno della servitù debitoria.
Ciò che
allarma, dunque, è che questo genere di transazioni, nell’ignoranza delle
inquietanti implicazioni che comportano, suscitino tanto superficiale
entusiasmo. Quasi si trattasse di una occasione in più, di un correttivo
sociale alla freddezza della ratio burocratico-fiscale. E non invece di uno
strumento di esazione studiato per spremere, in un modo o nell’altro, anche le
fasce più povere della popolazione.
A Roma i
cittadini vengono chiamati al lavoro gratuito di pulizia dei loro quartieri
disseminati di immondizie. Tra i promotori dell’iniziativa figura l’Ama, il
disastrato ente comunale in via di privatizzazione che se ne dovrebbe occupare.
Non risultano baratti amministrativi in corso. La retorica della partecipazione
può bastare. Senza sconti, questa volta.
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