martedì 8 settembre 2015

Privatizzare la sanità. Il modello Unipol


Il piano è sempre lo stesso, qualsiasi sia il settore pubblico da smantellare. Tagli la spesa, restringi i servizi, aumenti le tariffe, fai incazzare gli utenti, muovi un po' di giornalisti prezzolati, alimenti una campagna contro “il pubblico” che incontra resistenze via via più febili (il servizio funziona sempre meno) e alla fine privatizzi tutto.
Abbiamo visto i “grandi successidi Telecom e dell'Alitalia, per non dire dell'Italsider diventata Ilva. Lo stiamo vedendo con la scuola e l'università, fatte marcire tra taglio dei fondi, maltrattamento del personale e aumento delle rette, parallelo all'aumento dei fondi regalati alle scuole private.
La “fase finale” ora tocca alla sanità.
Come si privatizza la sanità pubblica? All'americana, naturalmente, dandola in mano alle assicurazioni e alle strutture private. C'è ancora un po' di timore a presentarla così, quindi si comincia con degli studi, in cui magari un centro di ricerca serio come il Censis si mette a duettare con un qualcosa che si chiama Unipol, si comincia a far circolare il mantra che “bisogna superare certi pregiudizi” (le assicurazioni, in Italia, non godono effettivamente di grandi simpatie nella popolazione...), ma si comincia anche a disegnare teoricamente il nuovo assetto possibile di una sanità completamente privatizzata. A cominciare dal nome, ovviamente in inglese: white economy.
Il rapporto Censis-Unipol prende atto con soddisfazione che la sanità pubblica è stata ormai “frollata” a sufficienza e quindi “Appare ormai maturo il tempo di una nuova integrazione tra pubblico e privato, capace non solo di garantire la tutela sanitaria e sociale delle persone, ma anche di favorire la crescita economica, a partire dai territori”.

In fondo gli utenti sono stati ormai abituati a pagarsi quasi tutte le prestazioni sanitarie, a cominciare dall'assistenza agli anziani. Dunque non ci sarebbero troppi ostacoli pratici. Anzi, bisogna anche sbrigarsi perché la crisi ha ristretto la capacità di spesa delle famiglie in questo settore. Al punto che ci si cura in generale di meno (nonostante l'aumento dei ticket, infatti, nel 2014 la spesa delle famiglie è scesa del 5,7%) e per la prima volta è in diminuzione anche il numero delle badanti assunte per assistere gli anziani.
Per il presidente di Unipol, Pierluigi Stefanini, “Se sapremo superare i pregiudizi consolidati, il pilastro socio-sanitario, inteso non più solo come un costo, può divenire una solida filiera economico-produttiva da aggiungere alle grandi direttrici politiche per il rilancio della crescita nel nostro Paese”. Et voilà, il gioco è fatto. La salute della popolazione smette di essere un diritto individuale garantito dallo Stato e diventa una merce “prodotta” da una “solida filiera economico-produttiva”, con aziende private (cliniche, laboratori di analisi e diagnostica, ecc) che sostituiscono quasi in tutto la rete sanitaria pubblica. Cui dovrebbero essere affidate, in misura assolutamente residuale, tutte quelle prestazioni da cui proprio è impossibile estrarre profitti privati: pronto soccorso, malattie gravi e/o invalidanti di persone con redditi troppo bassi, ecc.
Naturalmente bisogna “comunicare” qualcosa di più attraente e meno volgare. Quindi si argomenta in modo solidale alle famiglie italiane che “nei lunghi anni della recessione hanno supplito con le proprie risorse ai tagli del welfare pubblico”. E anzi ci si presenta come pronti a correre in loro soccorso, perché “oggi questo peso inizia a diventare insostenibile. Per questo è necessario far evolvere il mercato informale e spontaneo dei servizi alla persona in una moderna organizzazione che garantisca prezzi più bassi e migliori prestazioni utilizzando al meglio le risorse disponibili”.
Sembra la pubblicità di una catena di supermercati che garantisce “prezzi bassi e fissi”. E bisognerebbe chiedersi come sia possibile che una “moderna organizzazione” della sanità in mano ai privati riesca a garantire -in futuro - prezzi più bassi e migliori prestazioni. L'esperienza comune, infatti, registra l'esatto opposto: prezzi spaventosi (una clinica privata con una certa affidabilità può arrivare a chiedere 500 euro al giorno per il solo ricovero, senza ancora calcolare i costi di visite specialistiche e medicinali, per non dire delle operazioni chirurgiche), qualche problema con i casi clinicamente più complessi (specie nella neonatologia, dove non è infrequente che bambini nati in cliche private vengano trasferiti d'urgenza in ospedali pubblici specializzati, come il Bambin Gesù di Roma). Poi, certamente, in una clinica privata il “numero chiuso” - ristretto a chi si può permettere di pagare certe cifre o è coperto da un'assicurazione (appunto...) - garantisce un rapporto meno frettoloso con medici e infermieri, meno affollamento e nessun letto nei corridoi. Queste sono piacevolezze che vengono da sempre assegnate alla sanità pubblica che deve accogliere e assistere chiunque – meritoriamente – anche se non c'è posto.
Ma ci sono dettagli decisamente interessanti nel rapporto Censis-Unipol. Per esempio, lo scorso anno la spesa sanitaria privata è crollata del 5,7%. La riduzione generalizzata dei redditi, insomma, sta mettendo in crisi i profitti dei padroni delle cliniche e dei centri diagnostici privati (gli Angelucci e i Debenedetti, per esempio); quindi è decisamente il “momento” di garantir loro un solido aumento delle entrate.
L'idea è di copiare il modello anglosassone, soprattutto statunitense, con qualche mediazione: “un’integrazione tra offerta pubblica e strumenti assicurativi (che permettano di sottoscrivere polizze a costi accessibili per poter godere in futuro di servizi di assistenza, di cura e di long term care) e di intermediazione organizzata e professionale di servizi”.
Come farlo senza consegnare immediatamente e brutalmente la popolazione agli “intermediatori” sanitari privati? Con una attenta regolamentazione che serva a “stabilire le modalità precise per attivare tale percorso di integrazione, non tralasciando che molti fenomeni di cambiamento socio-demografico variano ed assumono sfumature differenti a seconda dei territori in cui si articola il Paese. Coinvolgere, pertanto, gli Enti territoriali nella definizione di processi di integrazione pubblico-privato, ma soprattutto coinvolgerli nella definizione di strumenti integrativi di welfare può essere una pista di lavoro per attivare servizi maggiormente rispondenti ad uno scenario in cambiamento. In questa prospettiva si pongono le proposte, di alcuni operatori privati, in primis Unipol, di attivare fondi sanitari integrativi di tipo territoriale, con una forte compartecipazione degli Enti locali”.
Decentramento, accordi con enti locali inchiodati dal “patto di stabilità” e dunque impossibilitati ad opporsi validamente alle pressioni dei “privati” in presenza di una riduzione generalizzata della spesa sanitaria pubblica e quindi alle montanti proteste della popolazione. La chiave per disarticolare le resistenze passa da qui.
Il tutto, ovviamente, per “stimolare la crescita del paese”, sviluppando “filiere”. Perché “è evidente che la modernizzazione e la crescita della white economy, non possono passare solo per un investimento pubblico ma, viceversa, dovrebbero passare attraverso l’attivazione di un’offerta privata di servizi e di strumenti assicurativi e finanziari privati, di tipo integrativo, coordinati con l’offerta pubblica e sottoposti, ovviamente, alla vigilanza di organismi indipendenti competenti per materia”.

Preparatevi a fare a schiaffi con le assicurazioni. Che, come in America, pretendono di coprire soltanto i clienti in perfetta salute, scartando tutti quelli che rischiano di costar loro più di quanto non versino di polizza.

Articolo di ieri del sito  CONTROPIANO.ORG

lunedì 7 settembre 2015

Roma. Cgil Cisl Uil blindano assemblea Rsu dell'Ikea. Fuori i delegati della Usb

Lunedì, 07 Settembre 2015


 Cgil, Cisl e Uil blindano la assemblea nazionale delle RSU di IKEA. Esclusi i delegati di USB del negozio storico di Carugate
A Roma in via dei Frentani era convocata per oggi l’assemblea nazionale delle RSU e RSA di tutti i negozi IKEA della penisola, ma i sindacalisti confederali hanno pensato che fosse utile escludere i delegati dell’USB eletti nello storico negozio di Carugate, il primo IKEA d’Italia.
Per questo già da ieri era stata pre-allertata la Questura, in modo che stamattina è stato impossibile ai delegati USB prendere parte all’assemblea.
Tutto ciò con l’evidente intento di andare ad un accordo al ribasso, dopo la grande mobilitazione dei lavoratori di questi mesi, per poi procedere ad una “normalizzazione” dei rapporti in vista del rinnovo del CCNL Federdistribuzione.
“I sindacati concertativi sono arrivati alla frutta – dichiara Francesco Iacovone dell’Esecutivo Nazionale Lavoro Privato USB – non possono neppure più permettersi di affrontare in assemblea le opinioni differenti di altri delegati. E’ il segno evidente di un declino ormai inarrestabile che abbiamo il compito però di velocizzare se non vogliamo assistere alla distruzione definitiva dei residui diritti del lavoro”.

articolo dal sito CONTROPIANO.ORG

IL SI.COBAS NON FIRMA L’ACCORDO SULLA RAPPRESENTANZA SINDACALE

Si Cobas Lavoratori Autorganizzati


Il testo unico sulla rappresentanza, giunto a compimento nel gennaio 2014, con il pieno appoggio delle segreterie confederali di CGIL-CISL-UIL, rappresenta un ulteriore passaggio politico del fronte capitalista che mira ad arginare gli spazi di espressione della classe lavoratrice sul terreno sindacale e politico all'interno dei luoghi di lavoro

L'accordo sancisce infatti un monopolio pressoché assoluto dei sindacati maggiormente rappresentativi sia rispetto al "diritto di contrattazione", sia rispetto alla "conformazione di rappresentanze sindacali" interne ai luoghi di lavoro e soprattutto impedisce a chi lo accetta di portare avanti iniziative se non si ha la maggioranza dei lavoratori pena l'essere messi fuori gioco con conseguenze anche dal punto di vista disciplinare e pecunario.

A fronte di una crisi economica che si approfondisce sempre di più , la Confindustria, con l'inerposta persona dei sindacati confederali,riesce così a imporre, da un punto di vista legale e borghese, un maggior controllo del movimento operaio e della sua capacità di contrapporsi ai piani di austerità richiesti dai capitalisti su scala internazionale, per salvaguardare cosi' le residue possibilità di rilanciare l'accumulazione capitalista assicurarandosi il "silenzio" dei proletari attraverso un controllo stretto delle loro forme indipendenti di espressione sindacale e politica.

La costruzione del SI.Cobas e la questione dei delegati operai:

Il Si.Cobas nasce come rottura nei confronti dell'atteggiamento e posizioni opportuniste che erano maturate nello SLAI Cobas e sulla spinta dei settori più sfruttati della classe operaia ( settore della logistica) per cercare un'alternativa allo sfruttamento incondizionato a cui sono stati sottoposti, in particolare attraverso un regime di neo-caporalato rappresentato dalle (finte) cooperative.

L'azione sindacale condotta negli ultimi 5 anni non ha avuto bisogno del riconoscimento formale del nemico di classe per esrimersi ed essere riconosciuta ma, piuttosto, ha imposto con la lotta condizioni migliori economiche e normative a partire dal rispetto del CCNL di categoria, (al di là della sua sostanziale inadeguatezza economica rispetto al fabbisogno medio operaio) fino ad imporre ai maggior committenti della logistica un accordo che ha stravolto le posizioni espresse da CGIL, CISL e UIL negli accordi del settore. Definendo, in tal modo, degli elementi che sono un baluardo di difesa economica collettiva, e di organizzazione di massa.
Un'azione diretta e indipendente della classe lavoratrice, che non è passata in alcun modo, attraverso il ricatto del riconoscimento formale dei padroni e che, in alternativa, ha imposto il ruolo dei delegati a livello aziendale come necessari e insostituibili punti di riferimento in quanto elementi più decisi e riconosciuti dagli operai per attuare contrattazione aziendale e nazionale.

In altre parole, la nostra esperienza diretta non ha mai fatto perno sulla costituzione delle cosiddette RSU (di per sé affermatesi attraverso un meccanismo elettorale mutuato dalle logiche degli accordi confederali espressione delle politiche borghesi) per puntare, in alternativa, a designare delegati rappresentativi della lotta concreta, possibilmente andando oltre il livello aziendale, facendo riferimento ad una dimensione più complessiva e generale della lotta di classe

Nonostante questo nostro DNA, non abbiamo mai rifiutato di misurarci sul terreno della rappresentanza (qualora questa permetteva, tra mille ostacoli, ad esprimere un'attivita' piu' larga tra i lavoratori) così come si è venuto a determinare, anche da un punto di vista normativo e giuridico. Ma l'accordo sul TU ha eliminato qualsiasi spazio di agibilità sindacale, chi accetta la blindatura imposta da padroni, governo e sindacati confederali ha meno spazio di chi non aderisce per indire scioperi e rappresentare altro che la cogestione con gli interessi borghesi. Lo dimostrano gli ultimi scioperi indetti all'ATM di Milano dalla CUB e da noi stessi. Con il TU non si tratta solo di avere un progressivo adattamento delle logiche sindacali (confederali) ai piani di assoggettamento messi in atto dalla controparte , ma di una rinuncia ad aprire nei fatti un'azione dei lavoratori contro le politiche aziendali e nazionali dei padroni e dei loro governi.
Conclusioni

L'agibilità sindacale utile agli operai, in una prospettiva di trasformazione dei rapporti di forza tra le classi, non passa quindi dal riconoscimento che viene fatto dalla controparte ma è frutto di una propria iniziativa indipendente. L'agibilità sindacale non è determinata dai permessi che vengono riconosciuti ai militanti sindacali, a maggior ragione se questi sono strettamente collegati al ricatto di "non disturbare il manovratore". Pertanto l'adesione al testo sulla rappresentanza, non farebbe altro che eliminare spazi reali di agibilità a chi intende opporsi radicalmente alle politiche padronali e alle istituzioni borghesi, finendo per accettare, al contrario, di essere blindato e, ancor di più, di farsi veicolo di una cultura politica di sottomissione alle forze borghesi.

Laddove si esprimerà una forza operaia, rappresentata da settori operai(eventualmente aderenti anche ai Confederali) istintivamente contrari ad una rappresentanza formale senza potere di agire autonomamente, ci batteremo come SI Cobas per imporre l'elezione di Rsu senza accettare la mutilazione del loro agire autonomo (in una prospettiva che superi una rappresentanza di comodo per i padroni per sancire, al contrario, che il consiglio operaio é un' espressione autentica della volontà di lotta in una prospettiva anticapitalistica).

CHI AL CONTRARIO, HA SOTTOSCRITTO IL TESTO UNICO SULLA RAPPRESENTANZA DI FATTO PERSEGUE UNA POLITICA OPPORTUNISTA CHE MIRA AD UNA RAPPRESENTANZA FORMALE CHE HA COME UNICO SCOPO QUELLO DI PRESERVARE IL PROPRIO ORTICELLO E VIVACCHIARE CON QUALCHE BRICIOLA CADUTA DAL PIATTO DI CGIL-CISL-UIL-UGL.

IL FATTO CHE TALE ADESIONE VENGA PRESENTATA COME UNA SCELTA OBBLIGATA NON FA ALTRO CHE DIMOSTRARE COME DIETRO LA RETORICA ROBOANTE E BARRICADERA DI ALCUNE SIGLE "DI BASE" SI CELA UNA POLITICA RIFORMISTA E IN REALTA' UNA SFIDUCIA TOTALE NELLA CAPACITA' DEI LAVORATORI DI FAR SALTARE LE REGOLE DEL GIOCO DEI PADRONI CON LA LOTTA E L'AUTORGANIZZAZIONE.
PER NOI IL COMPITO PRINCIPALE DI UN SINDACATO DI BASE È E RESTA QUELLO DI LAVORARE AFFINCHÉ I LAVORATORI ALLARGHINO LA LORO INIZIATIVA A SOSTEGNO DI UNA POLITICA DI CLASSE, NON CERTO QUELLO DI GUADAGNARE QUALCHE PERMESSO SINDACALE, COMANDO O ADDIRITTURA ESSERE RICONOSCIUTO NEL CNEL.

SI Cobas Nazionale

Copia cartacea del documento di valutazione rischi: un diritto del RLS

Una significativa sentenza ribadisce il diritto del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di ricevere copia cartacea, e quindi non solo in formato elettronico, del documento di valutazione dei rischi.

Milano, 16 Giu - Ospitiamo un approfondimento dell’avvocato Dubini che, anche alla luce di una significativa sentenza, ribadisce come sia un diritto del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza la ricezione di una copia cartacea, e quindi non solo in formato elettronico, del documento di valutazione dei rischi.

Di Rolando Dubini, avvocato in Milano

1. Il diritto soggettivo a ricevere una copia del documento
Ai sensi dell'articolo 18 (Obblighi del datore di lavoro e del dirigente) del D.Lgs. 9 aprile 2008, a pena di sanzione penale alternativa dell'arresto o dell'ammenda, "il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3 e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono:

[...]
“o) consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di questi e per l'espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all'articolo 17, comma 1, lettera a) [Documento di Valutazione dei Rischi -DVR], anche su supporto informatico come previsto dall'articolo 53, comma 5, nonchè consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r); il documento é consultato esclusivamente in azienda;”
p) elaborare il documento di cui all’articolo 26, comma 3 [Documento Unico di Valutazione dei Rischi da interferenza – c.d. DUVRI], “anche su supporto informatico come previsto dall’articolo 53, comma 5,” e, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, consegnarne tempestivamente copia ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; il documento é consultato esclusivamente in azienda”.

La modifica apportata dal D.Lgs. n. 106/2009 ha introdotto un limite, entrato in vigore dal 20 agosto 2009, alla consegna materiale del documento, che può avvenire solo nell'ambito del perimetro aziendale. Tale limite non era presente nell'originaria formulazione dell'art. 18 lettere o) e p) del D.Lgs. n. 81/2008.
Resta inteso che il tempo necessario a consultare in azienda il Dvr, l'intero documento allegati inclusi, è a carico dell'azienda.

Va ricordato che il diritto soggettivo a ricevere una copia del documento è altresì previsto dall'art. 50 del D.Lgs. n. 81/2008 (Attribuzioni del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza), ai sensi del quale il RLS "riceve" (e deve essere messo nella condizione di interpretare correttamente, dunque occorre anche, in modo formale e verbalizzato, spiegargli accuratamente il senso delle informazioni e dei documenti che gli vengono trasmessi) "le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali".

La sentenza che segue chiarisce in modo inequivocabile come sia vietato dal D.Lgs. n. 81/2008 ostacolare in forme magari surrettizie e subdole il diritto del Rls a disporre di copia integrale del documento di valutazione dei rischi, e come il RLS possa costringere l'azienda a consegnargli il DVR in copia cartacea non solo, come pure è avvenuto molte volte, invocando l'intervento degli ufficiali di polizia giudiziaria (u.p.g.) della Asl competente per territorio, ma anche ricorrendo allo strumento civilistico del decreto ingiuntivo.

Inoltre, sempre ai sensi dell'articolo 50 del D.Lgs. 9 aprile 2008:
"4. Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su sua richiesta e per l’espletamento della sua funzione, riceve copia del documento di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a).
5. I rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza dei lavoratori rispettivamente del datore di lavoro committente e delle imprese appaltatrici, su loro richiesta e per l’espletamento della loro funzione, ricevono copia del documento di valutazione dei rischi di cui all’articolo 26, comma 3".

Dunque, giova ribadirlo, il datore di lavoro è tenuto a fornire materialmente, a consegnare al RLS, previa richiesta scritta (forma necessaria a fini probatori) finalizzata esclusivamente all'esercizio delle sue funzioni di rappresentante del diritto alla sicurezza e alla salute dei lavoratori, tutte le informazioni e la documentazione (cartacea, se così desidera il RLS) sulla valutazione dei rischi in forma tale da consentirgli l'esercizio del fondamentale diritto di disporre della documentazione aziendale in materia di igiene e sicurezza del lavoro previsto dagli articoli citati.
In particolare i datori di lavoro forniscono al RLS la documentazione aziendale inerente il percorso valutativo e le misure d'intervento previste, nonché quella tecnica inerente le sostanze, gli impianti, l'organizzazione e gli ambienti di lavoro.
La documentazione deve essere fornita nella forma che il RLS ritiene più agevole per l'esercizio di quello che è un diritto suo, e non dell'azienda, perciò l'azienda non può in alcun modo ostacolare tale diritto pretendendodi imporre arbitrariamente una forma di consultazione di suo gradimento, ad esempio informatica, qualora il RLS ne pretenda a consegna in forma cartacea (si veda oltre nella sentenza che si riporta).
Il RLS deve avere effettiva conoscenza di quanto scritto nel documento di valutazione dei rischi, anche perché il datore di lavoro deve dimostrare di avere adempiuto all'obbligo di consultarlo in ordine alla valutazione dei rischi, come prescritto dall'art. 29 comma 2 del D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, e la dimostrazione ben difficilmente potrebbe essere fornita nel caso in cui il RLS sia completamente ignaro dei contenuti di tale documento.
In effetti sembra ragionevole dedurre che solo dando al RLS la più ampia informazione sulla valutazione dei rischi si possa dimostrare di averlo effettivamente consultato e, dunque, coinvolto nel processo di valutazione dei rischi.

Il modo in cui la conoscenza della documentazione aziendale in materia di sicurezza viene fornita al RLS può non essere univoca. Se si tratta di documenti molto complessi o di aziende molto grandi, fornire solo copia del documento di valutazione dei rischi potrebbe essere meno utile ai fini della effettiva conoscenza rispetto ad una particolareggiata esposizione dei contenuti dello stesso documento nel corso di una specifica riunione ad hoc.

Perché l'informazione e/o la documentazione non sia trasmessa in modo burocratico, è necessario che si prevedano quindi incontri di coordinamento informativo fra le parti per l'esposizione “integrata” delle informazioni da fornire o dei documenti da sottoporre all'attenzione.

La magistratura ha affermato che “tenuto conto del ruolo effettivo e non meramente formale del RLS […] lo stesso abbia diritto alla materiale consegna dei documenti”, ovviamente in copia, necessaria per svolgere appieno le sue funzioni [parere della Procura della Repubblica di Milano del 29 gennaio 1998 in risposta a una richiesta di chiarimento presentata dalla Azienda u.s.s.l. 40 di Milano]. È da dire inoltre che ben difficilmente la consegna di copia del documento sulla valutazione dei rischi potrebbe comportare una violazione del segreto industriale (a cui il RLS è comunque tenuto).

La circolare ministeriale 3 ottobre 2000 numero 68, avente ad oggetto l’“accesso del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza al documento di valutazione dei rischi. Chiarimenti interpretativi”, fornisce indicazioni utili sui “problemi interpretativi circa l'effettiva portata dell'onere di consegna del documento di valutazione del rischio al rappresentante dei lavoratori da parte del datore di lavoro”.

La circolare precisa che “il “diritto di accesso” al documento di valutazione del rischio (...) va in ogni caso assicurato, in via ordinaria, mediante la materiale consegna del documento” e “solo in via eccezionale, qualora obiettive esigenze di segretezza aziendale legata a ragioni di sicurezza o particolari oneri di riproduzione non rendano praticabile tale consegna, il datore di lavoro potrà assicurare altrimenti il diritto di accesso del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza mediante forme e modalità che consentano comunque la messa a disposizione del documento di valutazione del rischio”.

Dunque, giova ribadirlo, meccanismo individuato dalla legge vigente richiede una preventiva richiesta scritta del documento di valutazione dei rischi da parte del RLS (questo vale solo per il documento, dato che ogni altra informazione va comunque consegnata al RLS, che la riceve a prescindere da una esplicita richiesta), e la successiva fornitura di copia dello stesso da parte del datore di lavoro, eventualmente tramite il servizio aziendale di prevenzione e protezione.

Il diritto del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a ricevere la documentazione e le informazioni rilevanti in materia di salute e sicurezza del lavoro, pur imposta al datore di lavoro – anche prima dell’esplicitazione contenuta nell’art. 3 della legge 123/2007 - dall'art. 18 del D.Lgs. 626/94 prima, e ora in modo indiscutibile dai citati articoli del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 è stata spesso oggetto di resistenze giuridicamente illegittime da parte di alcuni datori di lavoro.

Con una significativa sentenza del Tribunale di Pisa del 7 marzo 2003 [Giudice G. Schiavone, Ricorrente Segreteria Provinciale CO.I.SP, Resistente Questore di Pisa], il tema è stato oggetto di un chiarimento importante. La sentenza è stata così massimata [da Guida al Lavoro, il settimanale de Il Sole 24 ore (n. 13 del 29 marzo 2003 pag. 44)]:
“al rappresentante per la sicurezza si applicano, ai sensi dell’articolo 19, comma 4, del D.Lgs. 626/94, le stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali, ivi compresa la tutela ex art. 28 st. lav.
È, pertanto, da ritenersi antisindacale la condotta del datore di lavoro che abbia omesso, nonostante le reiterate richieste da parte del rappresentante per la sicurezza, di fornirgli i documenti e le informazioni riguardanti il piano per la sicurezza, la valutazione dei rischi, il parere del medico competente ed ogni altra comunicazione relativa ai provvedimenti che il datore intendeva adottare ai fini dell'adeguamento dei locali di servizio a quanto stabilito dal D. Lgs. n. 626/94 [nel caso di specie, il Giudice ha accertato la sussistenza della condotta antisindacale nel comportamento di un dirigente dell'Amministrazione pubblica per aver omesso di rilasciare al rappresentante per la sicurezza, che nello specifico era anche segretario provinciale del sindacato Coisp, le informazioni e i documenti attestanti l'adempimento degli obblighi di salute e sicurezza relativamente ai locali di servizio mensa]”.

Il Decreto Legislativo 9 aprile 2008 n. 81 art. 18 comma 1 lettere o) e p) ha finalmente sancito in modo legislativamente inequivoco l’obbligo del datore di lavoro di consegnare materialmente il documento di valutazione dei rischi e il registro infortuni al RLS (benché anche prima di tale legge, come dimostrato, sussistesse tale obbligo), ponendo fine ad una annosa questione e rendendo così esplicitamente illegittima qualsiasi resistenza da parte dei datori di lavoro rispetto a tale consegna.


2. Rls e Dvr: una interpretazione del Ministero del lavoro contra legem
Secondo il Ministero del lavoro, in persona del Direttore generale della Tutela delle Condizioni di Lavoro del Ministero del Lavoro Paolo Pennesi, con risposta ad interpello n. 52 del 19 dicembre 2008, risposta che non ha alcuna validità erga omnes e che è smentita dalla sentenza che si riporta più oltre, è da ritenersi che “non essendo prevista alcuna formalità per la consegna del documento (di valutazione dei rischi lavorativi di cui agli articoli 17 comma 1 lettera a e 28 del D.Lgs. n. 81/2008), l’adempimento all’obbligo di legge è comunque garantito mediante consegna dello stesso su supporto informatico, anche se utilizzabile solo su terminale video messo a disposizione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza giacché tale modalità, consentendo la disponibilità del documento in qualsiasi momento ed in qualsiasi area all’interno dei locali aziendali, non pregiudica lo svolgimento effettivo delle funzioni del RLS.”.

L'interpello cita il comma 5 dell’art. 53 del medesimo decreto che "stabilisce che tutta la documentazione rilevante in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e tutela delle condizioni di lavoro possa essere tenuta su unico supporto cartaceo o informatico.”
Incredibile l'acrobazia verbale con la quale si trasforma l'obbligo di “consegna” del documento all'unico soggetto che rappresenta l'interesse di lavoratori alla sicurezza e salute in mera “messa a disposizione” da intendersi: il documento lo vedi ma non te lo consegno. Stupisce che il ministero del lavoro impieghi il tempo e il denaro dei contribuenti nel perdere tempo ad escogitare cervellotiche, ma illegittime ed illegali, modalità elusive di chiari ed espliciti dettati normativi.
La "soluzione" suggerita con questa risposta, oltre all'evidente problema di chi paga tutto il tempo che il RLS impiegherà per leggere al videoterminale il documento di valutazione dei rischi (e non può essere il RLS stesso, ovviamente), in realtà è inapplicabile al Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale, RLST, a meno che non lo si voglia sequestrare in azienda, e poiché è inimmaginabile un trattamento differenziato per Rls e RlsT se ne deve dedurre la illogicità della soluzione prospettata, nonché la sua illegittimità per incompatibilità con l'inequivocabile dettato normativo dell'articolo 18 comma 1 lettera o del D. Lgs. n. 81/2008 che obbliga datore di lavoro e dirigente alla consegna materiale del documento di valutazione dei rischi al RLS, e non alla messa a disposizione sul video terminale aziendale dello stesso, che è cosa del tutto diversa.
Peraltro il riferimento all'articolo 53 del D.Lgs. n. 81/2008 è clamorosamente sbagliato, perché è proprio detto articolo a prevedere esplicitamente che la documentazione di cui al D.Lgs. n. 81/29008, incluso il documento di valutazione dei rischi, può sì essere tenuta in forma elettronica, ma solo a condizione, tra le altre, che "e) sia possibile riprodurre su supporti a stampa, sulla base dei singoli documenti, ove previsti dal presente decreto legislativo, le informazioni contenute nei supporti di memoria", perciò la messa a disposizione su supporto elettronico non è legittima se non consente la stampa dello stesso.

Ciò posto, i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza potranno tranquillamente continuare a richiedere in forma scritta all'azienda copia stampata del documento di valutazione dei rischi, dichiarando che ne faranno un uso esclusivamente correlato alla tutela del diritto alla sicurezza e alla salute dei lavoratori che rappresentano (obbligandosi ad evitare qualunque diffusione arbitraria dello stesso), e potranno altresì ricorrere all'organo di vigilanza competente (producendo copia della richiesta scritta inviata, ad esempio, con raccomandata a.r. con piego, ripiegando il foglio di richiesta su se stesso, chiudendo i bordi) nel caso in cui la richiesta non venisse soddisfatta tempestivamente dal datore di lavoro o dal dirigente delegato per tale compito, ovvero nel più breve tempo possibile, non oltre una settimana dalla richiesta.

La risposta ad interpello ignora poi bellamente il D. Lgs. 6-2-2007 (“Attuazione della direttiva 2002/14/CE che istituisce un quadro generale relativo all'informazione e alla consultazione dei lavoratori”) il quale all’articolo 5 “informazioni riservate” disciplina gli obblighi di riservatezza cui sono tenuti i rappresentanti dei lavoratori e gli esperti che li assistono. L’articolo in questione prevede specificatamente (comma 1) che “i rappresentanti dei lavoratori, nonché gli esperti che eventualmente li assistono, non sono autorizzati a rivelare né ai lavoratori né a terzi, informazioni che siano state loro espressamente fornite in via riservata e qualificate come tali dal datore di lavoro o dai suoi rappresentanti, nel legittimo interesse dell'impresa. Tale divieto permane per un periodo di tre anni successivo alla scadenza del termine previsto dal mandato, indipendentemente dal luogo in cui si trovino. I contratti collettivi nazionali di lavoro possono tuttavia autorizzare i rappresentanti dei lavoratori e eventuali loro consulenti a trasmettere informazioni riservate a lavoratori o a terzi vincolati da un obbligo di riservatezza, previa individuazione delle relative modalità di esercizio da parte del contratto collettivo. In caso di violazione del divieto, fatta salva la responsabilità civile, si applicano i provvedimenti disciplinari stabiliti dai contratti collettivi applicati”.
Lo stesso articolo prevede inoltre a tutela dei datori di lavoro che (comma 2) “Il datore di lavoro non è obbligato a procedere a consultazioni o a comunicare informazioni che, per comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive siano di natura tale da creare notevoli difficoltà al funzionamento dell'impresa o da arrecarle danno”.

Al fine di conciliare infine eventuali divergenze tra le parti, il comma 3 dello stesso articolo demanda infine alla contrattazione collettiva la definizione delle controversie prevedendo che “i contratti collettivi nazionali di lavoro prevedono la costituzione di una commissione di conciliazione per le contestazioni relative alla natura riservata delle notizie fornite e qualificate come tali, nonché per la concreta determinazione delle esigenze tecniche, organizzative e produttive per l'individuazione delle informazioni suscettibili di creare notevoli difficoltà al funzionamento della impresa interessata o da arrecarle danno. I contratti collettivi determinano, altresì, la composizione e le modalità di funzionamento della commissione di conciliazione”.


Tribunale Ordinario di Milano - Sezione Lavoro, Udienza del 29 gennaio 2010 N. 7273/09 RGL - Consegna copia cartacea del documento di valutazione rischi: un diritto del RLS


Telecamere nei luoghi di lavoro: il tecnofascismo renziano in via di realizzazione

articolo tratto da : Senza Soste .it
Sta passando quasi nel silenzio la norma che introduce la possibilità di controllare i lavoratori tramite telecamere e di sanzionarli disciplinarmente in base a quelle riprese. Nei mesi scorsi si parlava solo del controllo di smartphone e pc aziendali, oggi invece scopriamo che probabilmente potremo essere sorvegliati e puniti anche attraverso telecamere, cosa fino ad oggi vietata se non per questioni legate alla sicurezza degli impianti oppure a casi limite come furti o altri reati.

Dalle notizie uscite in questi giorni in merito agli ultimi decreti attuativi del Jobs Act, emerge che la descrizione della norma è molto viscida, perché dice che gli impianti di sorveglianza non potranno essere installati "solo" per il controllo dei lavoratori, ma le immagini raccolte per altri scopi potranno essere utilizzate anche a fini disciplinari. Praticamente l'azienda potrà installarle con una scusa qualsiasi (non si è ancora capito se servirà il consenso dei sindacati o se in assenza di questo basterà l'ok del Ministero, ma tanto in molti casi questa differenza purtroppo è parecchio labile), e poi usare le immagini per i propri comodi, fino al licenziamento di un dipendente.

È necessario sapere che la svolta, se andrà in porto così come la stanno descrivendo, è epocale e non riguarda solo la questione delle possibili sanzioni disciplinari per chi lavora. Si tratta infatti di un cambiamento concettuale che interrompe una lunga fase storica durante la quale i lavoratori non potevano essere osservati durante il loro lavoro, o almeno non potevano essere assolutamente passibili di una qualsiasi contestazione (disciplinare, ma anche semplicemente verbale, sulla loro prestazione lavorativa) in base a riprese di impianti audiovisivi collocati nei luoghi di lavoro. Ciò che cambia dunque è proprio la forma del monitoraggio costante del lavoratore non tramite un normale controllo umano (tipo quello di un altro lavoratore di livello superiore), bensì tramite un occhio computerizzato grazie al quale un direttore in poltrona potrà controllare i suoi dipendenti attraverso uno schermo. Con tutto ciò che, di pesantissimo, ne deriva.

Una prestazione lavorativa infatti è umanamente influenzata nella sua serenità dal fatto che si lavori sotto un controllo continuo e fisso. Cosa farebbe ad esempio un lavoratore che si trovasse a dover decidere se svolgere oppure no un lavoro ai limiti della sicurezza? Sarebbe sereno nel decidere sapendo che una telecamera lo sta guardando e un suo allontanamento dal luogo di lavoro potrebbe essere sanzionato? E cosa farebbe una lavoratrice che, dopo una giornata di stress lavorativo, sentisse il bisogno di tirare il fiato per un minuto oppure semplicemente di andare in bagno? Sarebbe tranquilla nel decidere di fermarsi oppure piuttosto collasserebbe per paura di farsi "giudicare" da una telecamera? Forse questi sono casi limite, o forse anche no. Ma al di là di questi casi, l'effetto sarà sicuramente quello di una maggiore intensità di ritmi (quindi di produttività) dei lavoratori, dato che sarà sempre come lavorare sotto un "kapò" virtuale che detta continuamente il tempo. Un ritorno alla schiavitù dei secoli bui in pratica, solo con la modernità delle telecamere. Non male per un paese dove gli incidenti e le morti sul lavoro sono ancora a livelli vergognosamente altissimi e dove gli stipendi sono tra i più bassi d'Europa.

Come dicevamo quindi, si tratta di una svolta profondamente concettuale. Viene meno infatti il principio per il quale lavoratore e impresa hanno pari dignità (principio cardine per un paese civile), e viene introdotto un rafforzamento del potere gerarchico dell'impresa, rappresentato appunto dalla concessione della possibilità di avvalersi di mezzi non umani per il controllo a distanza sui lavoratori. Una barbarie (tutta ideologica) da regime totalitario, da tecnofascismo strisciante in cui non ci sono lavoratori e cittadini ma sudditi a disposizione del Sovrano e dei profitti degli imprenditori.

Curiosa poi la questione della cosiddetta "privacy". Poletti ha spiegato che verrà rispettata la privacy del lavoratore. Il classico contentino per mettere a tacere le inutili minoranze interne del Pd, ma soprattutto un altro esempio di come questo governo riconduca ogni dibattito politico solo a questione di mero gossip, immagini e slogan e niente di più. È la concezione, anche questa tutta ideologica e tipica di questo governo, per la quale non esiste la dimensione collettiva delle questioni (in questo caso il rapporto capitale-lavoro) ma solo il piano dell'individuo singolo, più debole in quanto tale e quindi impossibilitato a porre un argine agli attacchi contro di lui.
Insomma, dopo l'abolizione dell'articolo 18 e dopo i precedenti decreti attuativi del Jobs Act, siamo di fronte all'ennesimo attacco di un governo che, sul tema centrale del lavoro, rappresenta indubbiamente l'esecutivo più a destra che l'Italia repubblicana abbia mai avuto. Ben peggiore, leggi alla mano, dei governi Berlusconi e dei governi tecnici. Talmente di destra, che infatti la destra storica non sa più cosa proporre e produce un Salvini (definibile appunto come un prodotto di Renzi) che può beceramente parlare solo di immigrazione.

Senza Soste redazione - 6 settembre 2015



domenica 6 settembre 2015

Dimissionari sindacalisti USB Emilia

contro firma Testo unico rappresentanza: a Vicenza e in Veneto divisa Unione Sindacale di Base


Dall'abbandono dei dirigenti emiliani fino all'appello degli iscritti all'esecutivo nazionale per ritirare la firma sul famoso "Testo Unico sulla Rappresentanza", che definisce regole sindacali comuni e inizialmente avversato dagli autonomi. Non è un bel momento per l'USB, dal sindacato continuano a levarsi venti di malumore e accuse reciproche in quella che sembra una guerra intestina destinata a ridefinire gli assetti.
I primi segnali sismici del terremoto che sta avvenendo all'interno del Sindacato Unitario di Base sono arrivati qualche settimana fa con una lettera indirizzata all'Esecutivo Confederazione Nazionale, al Coordinamento Nazionale Confederale e ai Delegati USB Emilia Romagna. Attraverso questa missiva, 15 dirigenti degli organismi regionali dell'Emilia Romagna hanno annunciato le loro dimissioni dal sindacato. Una scelta risultante da numerosi mal di pancia sia interni alla struttura emiliana sia nei rapporti con la direzione nazionale e culminati in un dossier dell'esecutivo confederale nazionale, appoggiato da un documento firmato da 20 iscritti emiliani. "Hanno messo in discussione il funzionamento dell'intera struttura dirigente emiliana che in questi anni ha gestito il piano confederale e categoriale - si legge nella lettera dei dirigenti dimissionari - ci accusano di non avere fatto una discussione approfondita del voto Rsu in Emilia, mentre è vero il contrario. L'accusa che più pesa è però quella di una nostra presunta rivendicazione di autonomia dalle scelte nazionali in contrasto con il progetto di piena confederalità discussa all'interno della conferenza d'organizzazione nazionale".
L'oggetto della diatriba sarebbe quindi la critica alla struttura regionale di avere troppa autonomia, anche se, secondo i fuoriusciti, sussisterebbero di fondo degli aspetti politici per la gestione del sindacato. "Sono tesi false che nascondono la volontà di una area politica precisa di ricondurre a se la gestione diretta del sindacato in Emilia - sostengono i dimissionari - le proposte di regolamento interno vorrebbero accentrare tutto il potere in pochissime mani restringendo in modo inverosimile la vita democratica interna all'organizzazione".
Il malessere verso la dirigenza nazionale sembra estendersi anche in altre regioni, compreso il Veneto. Ad alcuni dirigenti e sindacalisti non è infatti affatto piaciuto dover ingoiare il "boccone amaro" del 23 maggio 2015, quando il Consiglio Nazionale Confederale di USB ha deciso di aderire al Testo Unico sulla Rappresentanza, firmato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria il 10 gennaio 2014. "Molti delegati ma anche intere federazioni, tra le quali il Veneto hanno espresso la loro contrarietà sia alla decisione di firmare sia nel metodo, cioè sottoscrivere il Testo unico all'insaputa della grandissima maggioranza degli iscritti e dei militanti", sottolinea Orietta Torri di USB Padova. Tanto che, all'interno del sindacato, circola un appello con il quale si chiede, alla direzione nazionale di USB, il ritiro della firma e la convocazione di una assemblea generale nazionale dei delegati e degli iscritti per il 3 ottobre.
"Il Testo Unico sulla Rappresentanza - scrivono i primi firmatari dell'appello - è l'accordo sindacale più corporativo del secondo dopoguerra. Con esso la minoranza di ogni RSU deve sottomettersi alle decisioni della maggioranza, a pena di sanzioni, anche economiche". Per i dissidenti, "aderire all'Accordo del 10 gennaio 2014 significherà legare USB mani e piedi al carro del sindacalismo di regime e perdere un'altra fetta di iscritti".
C'è però chi la pensa diversamente come, a livello locale, Luc Thibault dell'USB RSU/Alto Vicentino Ambiente. "Siamo stati costretti a firmare questo vergognoso accordo voluto da Confindustria e Confederali e da più di un anno abbiamo dichiarato guerra a questo accordo con una causa in tribunale che purtroppo ci ha dato torto - ha commentato il sindacalista con una nota al nostro direttore - tutti noi di USB continuiamo a pensare che si tratta di un pessimo accordo, ma non firmarlo adesso vorrebbe dire essere fuori da tutte le elezioni Rsu". Dopo il Cobas e l'Orsa, anche l'USB ha quindi mollato la presa sul patto con Confindustria e resta quindi solo il CUB come unico sindacato "autonomo"? Oppure, come conclude Thibault, è stato un'atto obbligato e ci sono delle influenza politiche anche da parte di chi protesta?  "Siamo costretti ad accettare le regole del più forte, ma siamo sicuri che all'interno delle nuove Rsu saremo in grado di ribaltare la situazione...e in più la petizione contro l'accordo - conclude il sindacalista - ha una regia ben precisa". Questioni che di sicuro avranno degli esiti e che non mancheremo di approfondire.

Sulcis, “protestavano per il lavoro ma con gli stipendi gonfiati”. Indagati tre sindacalisti

Durante le proteste si barricarono con gli operai nelle gallerie e uno di loro provò a tagliarsi le vene in diretta tv ma secondo i pm prendevano soldi dall'azienda. La procura di Cagliari indaga per truffa ai danni dello Stato


Nella miniera di carbone qualcuno aveva trovato un filone d’oro. Come i tre sindacalisti della Carbosulcis – l’impianto estrattivo di Nuraxi Figus (Sulcis) – che, tra proteste eclatanti e tentati suicidi in difesa del lavoro, avrebbero ricevuto stipendi da dirigenti nonostante una qualifica decisamente più modesta. Grazie a una serie di indennità e rimborsi non dovuti Giancarlo Sau (Cgil), Luigi Marotto (Cisl) e Stefano Meletti (Uil) sarebbero riusciti a ottenere entrate mensili gonfiate, ora al vaglio della procura di Cagliari che indaga per truffa ai danni dello Stato. Voci in busta paga che avrebbero anche consentito a Sau e Marotto di arrivare prima e meglio alla pensione, un miraggio sognato da tanti minatori che da anni vivono nel timore che la Carbosulcis – partecipata al 100 per cento dalla Regione Sardegna e ogni anno in perdita per milioni di euro – chiuda definitivamente i battenti. Mentre Cisl e Uil tacciono, la Cgil, che un anno fa ha rinnovato tutta la sua Rsu, ha annunciato che si costituirà parte civile.
Una storia vicina, per geografia e contorni, a quella delle lavoratrici Igea le cui barricate sottoterra avevano raccolto molte simpatie prima che un’inchiesta, con oltre 60 indagati, scoperchiasse un presunto giro di ruberie, appalti truccati e voti di scambio. Sullo sfondo – anche in questo caso – le miniere, una società foraggiata interamente dalla Regione e il vessillo dell’occupazione sbandierato nella stessa disastrata zona della Sardegna. Così si configura un “sistema Sulcis”, con la miniera già al centro di inchieste per bandi assegnati senza gare e costosi macchinari mai entrati in funzione.
I nomi dei sindacalisti, finiti nel fascicolo della procura assieme ad altri dipendenti Carbosulcis, sorprendono soprattutto per la notorietà raggiunta negli anni scorsi con le proteste per difendere la miniera. Dopo aver ingoiato oltre 400 milioni di euro dal 1998 al 2010, era finita nel mirino dell’Unione europea.
Meletti, durante l’occupazione delle gallerie dell’estate 2012, aveva cercato di tagliarsi le vene in favore di telecamera. Prima di essere fermato dai colleghi, aveva gridato: “È questo che dobbiamo fare, ci dobbiamo tagliare?”. E Sau, oggi coindagato, spiegò ai cronisti che nel collega autolesionista si incarnava l’esasperazione di tutti. Sarà ora l’inchiesta del pm Marco Cocco a stabilire se quelle battaglie siano state una sceneggiata per coprire la truffa ai danni dello Stato. Già tre anni fa qualche ombra sulla genuinità di quelle rivendicazioni era stata gettata da alcune lettere di minacce spedite da una mano rimasta anonima, che accusava di “intrallazzi” proprio Sau, Marotto e Meletti definiti “i tre porcellini” per la loro linea morbida con i vertici dell’impianto. E anche l’ufficio a loro riservato dall’azienda era sembrato a molti un privilegio, alimentando il clima di sospetti e dividendo il fronte sindacale. L’attenzione degli inquirenti sembra destinata a concentrarsi proprio sul ruolo degli indagati e sull’eventuale tornaconto per chi garantiva gli stipendi lievitati.
Un brutto film e in più già visto: quanto emerso sino ad ora ricorda da vicino lo scandalo Igea, una società nata per occuparsi del recupero dell’imponente patrimonio minerario del Sulcis. Dopo robuste iniezioni di denaro pubblico si era avviata al declino senza aver mai bonificato nulla. E proprio per scongiurare la perdita del posto di lavoro, nello scorso novembre, 37 lavoratrici Igea avevano occupato una vecchia galleria. La grande solidarietà per la coraggiosa protesta femminile era stata però subito spazzata via dalle carte di un’indagine dei carabinieri, in cui tre di esse risultavano coinvolte: una fitta trama di appalti truccati e voto di scambio che in cinque anni avrebbe bruciato circa 600 milioni di euro.

Particolari eclatanti: preziosi frammenti minerari regalati ad ‘amici’ importanti, cimeli delle miniere trasformati in esclusivi arredi da giardino in cambio di un centinaio di preferenze alle imminenti elezioni, gasolio dei tosaerba aziendali usato per fare il pieno all’amante di un sindacalista che la faceva da padrone. La quale amante, sempre stando alle indagini, firmava la presenza in azienda per poi andare dal parrucchiere, prima di murarsi in galleria per chiedere di rilanciare l’Igea. Il tutto condito ovviamente dal coinvolgimento di numerosi politici locali coinvolti, il più noto dei quali è il leader isolano dell’allora Udc Giorgio Oppi.

di Maddalena Brunetti


da il Fatto Quotidiano del 4 settembre 2015