sabato 19 settembre 2015

I pericoli dell’accordo interconfederale sulla rappresentanza

di Piergiovanni Alleva  (Università Politecnica delle Marche)


L’accordo interconfederale 10 gennaio 2014, in tema di rappresentanza sindacale e sistema di
contrattazione collettiva, suscita, a nostro avviso,non poche perplessità per alcuni suoi contenuti - non
presenti nei precedenti accordi del 2011, 2013 – contenuti virtualmente pericolosi per la libertà sindacale.

Questo giudizio critico, da spiegare accuratamente, nulla toglie al fatto positivo che questo accordo –
successivo rispetto alla fondamentale sentenza 231 del 2013 della Corte costituzionale – volta pagina
rispetto al sistema precedente, assurdo e certamente antidemocratico, costruito a partire da una certa
interpretazione dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori.
Nel precedente sistema, infatti, un sindacato, anche del tutto minoritario, ma ben visto dalla
controparte datoriale, poteva concludere con questa un contratto a lei gradito che sarebbe divenuto di
fatto l’unico applicato, anche se i lavoratori fossero stati contrari. Questo sindacato complice, inoltre,
avrebbe scacciato dall’azienda gli altri sindacati dissenzienti, anche se più rappresentativi tra i lavoratori.
Tale deprecabile sistema, che potremmo definire di “dittatura della minoranza”, è stato
definitivamente superato con questo accordo interconfederale e con i due precedenti che esso in qualche
modo riepiloga.
Vengono riconosciuti,infatti, due importanti principi : ogni sindacato che possa vantare il 5% di
rappresentanza ha diritto di partecipare alle trattative negoziali; inoltre, i contratti collettivi, sia nazionali
che aziendali, sono validi solo se di maggioranza, ossia se conclusi da sindacati che, anche per sommatoria,
rappresentino più della metà dei lavoratori, ovvero, a livello aziendale, ove esista una rsu, dalla
maggioranza dei membri della stessa.
Sventata così la “dittatura della minoranza”, si prospetta però il pericolo che, con questo ultimo
accordo, si cada nell’errore opposto, dando origine ad una “dittatura della maggioranza”, la quale, con la
giustificazione di voler dare efficacia ai contratti collettivi, rendendoli applicabili a tutti i lavoratori della
categoria o dell’azienda, finisca con emarginare, imbavagliare ed opprimere le minoranze sindacali, ossia i
sindacati che, per ragioni di merito, sono rimasti minoranze e non hanno voluto firmare gli accordi.
Esaminando analiticamente quali sono i punti e le tematiche dell’accordo 10.01.2014 che danno corpo
al pericolo ora paventato, crediamo di doverne identificare almeno quattro.
1.In primo luogo, occorre esaminare il rapporto tra i sindacati confederali firmatari dell’accordo e il
“resto del mondo”,ossia l’articolato insieme dei sindacati autonomi.
E’ chiaro che l’accordo raggiunto tra Confindustria e Confederazioni non può giuridicamente
impegnare nei suoi contenuti ( es. procedura di contrattazione, percentuali di misura della rappresentanza,
ecc.) i sindacati autonomi non firmatari, ma può invece risultare una “conventio ad escludendum”contro di
loro.
La ragione è semplice : la impresa o associazione di imprese aderenti a Confindustria, con l’accordo del
10.1.2014, hanno contratto impegni come quello di trattare sulla base di una piattaforma maggioritaria di
sindacati che abbiano almeno il 51% di rappresentanza. Questa impresa o associazione di imprese
potrebbero allora concludere un accordo con i sindacati autonomi presentatori di una piattaforma
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rivendicativa di minoranza o privi del requisito minimo di rappresentanza,senza contraddire l’accordo del
10.1.2014 e quindi rendendosi inadempienti verso i confederali?
Poiché certamente non lo potrebbero, ne discende che quell’accordo comporta implicitamente un
patto di esclusione preventiva nei confronti di altri sindacati, salvo che essi non si pieghino ad aderire
all’accordo.
Occorre allora sottolineare che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 231/2013 ha già messo in
guardia contro la illegittimità dei patti impliciti o espliciti di esclusione degli altri sindacati.
2.In secondo luogo, bisogna evidenziare che nell’accordo del 10.1.2014 sono state inserite nuove
previsioni dirette contro le minoranze sindacali interne e cioè anche rappresentate da sindacati aderenti
alle Confederazioni firmatarie.
Detto in termini diversi, gli “accordi separati”, che tanto male hanno fatto in questi anni, vengono di
fatto premiati, con grave punizione del sindacato, pur confederale, rimasto in minoranza.
Ci riferiamo anzitutto alla previsione secondo cui il negoziato per il contratto nazionale si svolge, in
caso di più piattaforme rivendicative, sulla piattaforma presentata dai sindacati che,nel loro insieme,
abbiano il 51% di rappresentatività.
Sembrerebbe una innocua regola procedurale, visto che comunque per partecipare alle trattative
basta il 5%, e che comunque fortunatamente l’ipotesi di accordo deve essere approvata dai lavoratori.
Si tratta invece di una norma grave che costituisce una sorta di aggiramento o di una rivalsa sulla
sentenza della Corte costituzionale 231/2013. Questa ha stabilito che possono costituire rappresentanze
sindacali aziendali, ai sensi dell’art. 19, anche i sindacati che, pur non avendo sottoscritto l’intesa
finale,abbiano però partecipato al negoziato. E qui giunge la grave novità, perché nel testo dell’accordo si
intende che abbia partecipato al negoziato solo il sindacato che abbia contribuito a formulare la
piattaforma rivendicativa maggioritaria.
Per comprendere la gravità della questione,scendiamo al concreto e consideriamo il settore
metalmeccanico. La Fiom è il sindacato di maggioranza relativa, ma è possibile che tutti gli altri sindacati si
alleino tra loro e presentino una piattaforma diversa che arrivi al 51% di rappresentanza.
Il negoziato inizia e la Fiom ha diritto di partecipare perché ha più del 5% di rappresentanza; ma poiché
la piattaforma su cui si tratta è per lei inaccettabile, non sottoscrive l’intesa finale; e allora, non avendo
contribuito alla piattaforma su cui si è negoziato l’accordo, si intenderebbe “non partecipante al negoziato”
e perderebbe anche il diritto di costituire o mantenere le r.s.a.
Insomma, con l’inserimento ad opera di questo accordo dell’elemento nuovo della” piattaforma
rivendicativa maggioritaria”, viene aggirata e svuotata la sentenza della Corte costituzionale 231/2013.
Il “marchingegno giuridico” sembra portare il marchio di fabbrica di giuristi datoriali usciti sconfitti
nella causa avanti alla Corte costituzionale.
Purtroppo anche la Cgil sembra non essersi accorta dell’insidia, probabilmente a causa della segretezza
e della mancanza di condivisione che hanno avvolto i lavori di preparazione dell’accordo 10.1.2014.
Ovviamente quello che si osserva qui per il settore metalmeccanico vale per quello del commercio e
per tutti gli altri che hanno conosciuto l’esperienza degli “accordi separati”, o che potranno conoscerla.
3.In terzo luogo, e con riguardo alla contrattazione aziendale, bisogna rilevare criticamente una
sorta di “parlamentarizzazione costrittiva” dell’attività di rappresentanza sindacale, nel senso anzitutto che
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la legittimazione all’attività negoziale aziendale appartiene alla rappresentanza sindacale unitaria e i
contratti vengono approvati a maggioranza dei suoi membri.
Fin qui lo schema è accettabile, ma non la successiva previsione dell’accordo interconfederale,
secondo cui le clausole dell’accordo aziendale, anche se peggiorative, debbano valere per tutti i lavoratori,
senza che abbiano la possibilità di pronunciarsi su di esso con un referendum, ed inoltre sotto pena di
sanzioni risarcitorie pecuniarie alle organizzazioni sindacali che hanno partecipato alle elezioni delle rsu,
ove assumano qualunque iniziativa di dissenso – essenzialmente lo sciopero – contro il contratto così
concluso.
L’oppressione della minoranza è allora evidente.
Un sindacato anche largamente maggioritario tra i lavoratori, ma non maggioritario in assoluto :
o resta al di fuori dalle elezioni delle rsu e dallo stesso contratto a cui esse sono legittimate, e così si
condanna all’impotenza e alla marginalità;
oppure, se partecipa alle elezioni e poi intende mobilitare i lavoratori contro il contratto aziendale che
i suoi eletti nelle rsu, restando in minoranza, hanno rifiutato, si espone ad azioni repressive e risarcitorie
della controparte datoriale.
Il pensiero corre ancora alla vicenda Fiom/Fiat, con agevole comprensione del fatto che si è in
presenza del tentativo di rendere sacre ed intangibili ( dopo aver loro conferito valore “erga omnes”) gli
“accordi separati”, con minaccia di esclusione e repressione delle minoranze dissenzienti.
Si tratta dunque di una disciplina davvero più che discutibile, perché assume uno schema di
democrazia solo formale e implica, a ben vedere, per il sindacato che partecipa alle elezioni delle rsu,
l’abdicazione del diritto di continuare a fare politica in azienda, e per di più senza che esista alcuna garanzia
di rispondenza tra la maggioranza dei lavoratori e la decisione negoziale della maggioranza dei membri
delle rsu, magari elette molto tempo prima dell’insorgenza delle questioni oggetto del contratto aziendale.
Sarebbe, a nostro avviso, sbagliato reagire a questo grave pericolo rifiutando di partecipare alle
elezioni delle rsu o assumendo una posizione negativa verso l’opportunità/necessità di una efficacia
generale di un contratto aziendale.
Bisogna invece mutare il fulcro del sistema, individuando la fonte legittimante della disciplina
negoziale ad efficacia generale nella volontà dei lavoratori da loro direttamente espressa, mediante
referendum,sull’ipotesi di accordo siglato dalla maggioranza dei membri delle rsu.
In sintesi, la rsu negozi e sigli l’ipotesi di accordo, ma devono essere i lavoratori, mediante referendum,
a conferire efficacia ( generale) al contratto aziendale.
In questo modo tutte le contraddizioni si risolverebbero in una finalmente raggiunta armonia tra
democrazia rappresentativa e democrazia diretta.
4. In quarto luogo, l’accordo interconfederale accoglie largamente e acriticamente l’impostazione
datoriale relativa al diritto di sciopero fino alla sua virtuale eliminazione.
Il punto di partenza di questa desolante operazione è costituito da una espressione contenuta
nell’accordo che costituisce semplicemente un non senso giuridico, ossia la c.d. “esigibilità” del contratto
collettivo; esigibilità che appunto andrebbe garantita contro scioperi di protesta indetti da minoranze
sindacali dissenzienti.
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Si rileva che predicare la ”esigibilità” di un accordo come meta da raggiungere è una banale tautologia
( un po’ come parlare di “acqua idraulica”), perché nel diritto civile un accordo è di per sé esigibile nei
confronti della controparte che lo ha sottoscritto.
Il fatto è però che nella nostra Costituzione è previsto il diritto di sciopero, che è proprio un “diritto di
lotta”, ossia il diritto dei lavoratori associati di contraddire i contratti anche vigenti, chiedendone un
mutamento favorevole o rifiutandosi di lavorare alle condizioni esistenti, ritenendole ingiuste.
E’ un diritto che si spiega alla luce dell’art. 3, II comma Cost., il quale promuove la emancipazione della
classe lavoratrice, così consentendo il riproporsi delle sue istanze rivendicative.
Il diritto di sciopero è un diritto della persona che appartiene al “genus” dei diritti di espressione e non
è una semplice facoltà contrattuale; ciò spiega perché nel nostro diritto siano legittimi gli scioperi politici, di
solidarietà e di protesta.
Quanto alla distinzione tra responsabilità dei sindacati, ai quali dovrebbero essere chiesti risarcimenti
dei danni ove organizzino scioperi di protesta, e l’ immunità dalla sanzione per i lavoratori che vi abbiano
partecipato, al di là dei profili teorici, si tratta di una concreta ipocrisia, perché il rapporto tra singolo e
organizzazione è comunque fisiologico, giacché una protesta spontanea non coordinata dal sindacato,
avrebbe vita breve e minima incidenza.
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A questo punto e in conclusione, ci sembra necessaria quella discussione vera tra lavoratori e quadri
sindacali che finora è mancata sulle delicate questioni sollevate dall’accordo10.1.2014 sulla
rappresentanza, e non può essere surrogata dalla solita votazione a “prendere o lasciare” che
contraddirrebbe tutta la storia del sindacalismo democratico in Italia.

Questo modesto contributo è finalizzato ad aiutare la discussione.

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