L’accordo
interconfederale 10 gennaio 2014, in tema di rappresentanza sindacale e sistema
di
contrattazione
collettiva, suscita, a nostro avviso,non poche perplessità per alcuni suoi
contenuti - non
presenti nei
precedenti accordi del 2011, 2013 – contenuti virtualmente pericolosi per la
libertà sindacale.
Questo giudizio critico, da spiegare accuratamente, nulla toglie al fatto positivo che questo accordo –
successivo
rispetto alla fondamentale sentenza 231 del 2013 della Corte costituzionale –
volta pagina
rispetto al
sistema precedente, assurdo e certamente antidemocratico, costruito a partire
da una certa
interpretazione
dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori.
Nel
precedente sistema, infatti, un sindacato, anche del tutto minoritario, ma ben
visto dalla
controparte
datoriale, poteva concludere con questa un contratto a lei gradito che sarebbe
divenuto di
fatto
l’unico applicato, anche se i lavoratori fossero stati contrari. Questo
sindacato complice, inoltre,
avrebbe
scacciato dall’azienda gli altri sindacati dissenzienti, anche se più
rappresentativi tra i lavoratori.
Tale
deprecabile sistema, che potremmo definire di “dittatura della minoranza”, è
stato
definitivamente
superato con questo accordo interconfederale e con i due precedenti che esso in
qualche
modo
riepiloga.
Vengono
riconosciuti,infatti, due importanti principi : ogni sindacato che possa
vantare il 5% di
rappresentanza
ha diritto di partecipare alle trattative negoziali; inoltre, i contratti
collettivi, sia nazionali
che
aziendali, sono validi solo se di maggioranza, ossia se conclusi da sindacati
che, anche per sommatoria,
rappresentino
più della metà dei lavoratori, ovvero, a livello aziendale, ove esista una rsu,
dalla
maggioranza
dei membri della stessa.
Sventata
così la “dittatura della minoranza”, si prospetta però il pericolo che, con
questo ultimo
accordo, si
cada nell’errore opposto, dando origine ad una “dittatura della maggioranza”,
la quale, con la
giustificazione
di voler dare efficacia ai contratti collettivi, rendendoli applicabili a tutti
i lavoratori della
categoria o
dell’azienda, finisca con emarginare, imbavagliare ed opprimere le minoranze
sindacali, ossia i
sindacati
che, per ragioni di merito, sono rimasti minoranze e non hanno voluto firmare
gli accordi.
Esaminando
analiticamente quali sono i punti e le tematiche dell’accordo 10.01.2014 che
danno corpo
al pericolo
ora paventato, crediamo di doverne identificare almeno quattro.
1.In primo
luogo, occorre esaminare il rapporto tra i sindacati confederali firmatari
dell’accordo e il
“resto del
mondo”,ossia l’articolato insieme dei sindacati autonomi.
E’ chiaro
che l’accordo raggiunto tra Confindustria e Confederazioni non può giuridicamente
impegnare
nei suoi contenuti ( es. procedura di contrattazione, percentuali di misura
della rappresentanza,
ecc.) i
sindacati autonomi non firmatari, ma può invece risultare una “conventio ad
escludendum”contro di
loro.
La ragione è
semplice : la impresa o associazione di imprese aderenti a Confindustria, con
l’accordo del
10.1.2014,
hanno contratto impegni come quello di trattare sulla base di una piattaforma
maggioritaria di
sindacati
che abbiano almeno il 51% di rappresentanza. Questa impresa o associazione di
imprese
potrebbero
allora concludere un accordo con i sindacati autonomi presentatori di una
piattaforma
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rivendicativa
di minoranza o privi del requisito minimo di rappresentanza,senza contraddire
l’accordo del
10.1.2014 e
quindi rendendosi inadempienti verso i confederali?
Poiché
certamente non lo potrebbero, ne discende che quell’accordo comporta
implicitamente un
patto di
esclusione preventiva nei confronti di altri sindacati, salvo che essi non si
pieghino ad aderire
all’accordo.
Occorre
allora sottolineare che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 231/2013 ha
già messo in
guardia
contro la illegittimità dei patti impliciti o espliciti di esclusione degli
altri sindacati.
2.In secondo
luogo, bisogna evidenziare che nell’accordo del 10.1.2014 sono state inserite
nuove
previsioni
dirette contro le minoranze sindacali interne e cioè anche rappresentate da
sindacati aderenti
alle
Confederazioni firmatarie.
Detto in
termini diversi, gli “accordi separati”, che tanto male hanno fatto in questi
anni, vengono di
fatto
premiati, con grave punizione del sindacato, pur confederale, rimasto in
minoranza.
Ci riferiamo
anzitutto alla previsione secondo cui il negoziato per il contratto nazionale
si svolge, in
caso di più
piattaforme rivendicative, sulla piattaforma presentata dai sindacati che,nel
loro insieme,
abbiano il
51% di rappresentatività.
Sembrerebbe
una innocua regola procedurale, visto che comunque per partecipare alle
trattative
basta il 5%,
e che comunque fortunatamente l’ipotesi di accordo deve essere approvata dai
lavoratori.
Si tratta
invece di una norma grave che costituisce una sorta di aggiramento o di una
rivalsa sulla
sentenza
della Corte costituzionale 231/2013. Questa ha stabilito che possono costituire
rappresentanze
sindacali
aziendali, ai sensi dell’art. 19, anche i sindacati che, pur non avendo
sottoscritto l’intesa
finale,abbiano
però partecipato al negoziato. E qui giunge la grave novità, perché nel testo
dell’accordo si
intende che
abbia partecipato al negoziato solo il sindacato che abbia contribuito a
formulare la
piattaforma
rivendicativa maggioritaria.
Per
comprendere la gravità della questione,scendiamo al concreto e consideriamo il
settore
metalmeccanico.
La Fiom è il sindacato di maggioranza relativa, ma è possibile che tutti gli
altri sindacati si
alleino tra
loro e presentino una piattaforma diversa che arrivi al 51% di rappresentanza.
Il negoziato
inizia e la Fiom ha diritto di partecipare perché ha più del 5% di
rappresentanza; ma poiché
la
piattaforma su cui si tratta è per lei inaccettabile, non sottoscrive l’intesa
finale; e allora, non avendo
contribuito
alla piattaforma su cui si è negoziato l’accordo, si intenderebbe “non
partecipante al negoziato”
e perderebbe
anche il diritto di costituire o mantenere le r.s.a.
Insomma, con
l’inserimento ad opera di questo accordo dell’elemento nuovo della” piattaforma
rivendicativa
maggioritaria”, viene aggirata e svuotata la sentenza della Corte
costituzionale 231/2013.
Il
“marchingegno giuridico” sembra portare il marchio di fabbrica di giuristi
datoriali usciti sconfitti
nella causa
avanti alla Corte costituzionale.
Purtroppo
anche la Cgil sembra non essersi accorta dell’insidia, probabilmente a causa
della segretezza
e della
mancanza di condivisione che hanno avvolto i lavori di preparazione
dell’accordo 10.1.2014.
Ovviamente
quello che si osserva qui per il settore metalmeccanico vale per quello del
commercio e
per tutti
gli altri che hanno conosciuto l’esperienza degli “accordi separati”, o che
potranno conoscerla.
3.In terzo
luogo, e con riguardo alla contrattazione aziendale, bisogna rilevare
criticamente una
sorta di
“parlamentarizzazione costrittiva” dell’attività di rappresentanza sindacale,
nel senso anzitutto che
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la
legittimazione all’attività negoziale aziendale appartiene alla rappresentanza
sindacale unitaria e i
contratti
vengono approvati a maggioranza dei suoi membri.
Fin qui lo
schema è accettabile, ma non la successiva previsione dell’accordo interconfederale,
secondo cui
le clausole dell’accordo aziendale, anche se peggiorative, debbano valere per
tutti i lavoratori,
senza che
abbiano la possibilità di pronunciarsi su di esso con un referendum, ed inoltre
sotto pena di
sanzioni
risarcitorie pecuniarie alle organizzazioni sindacali che hanno partecipato
alle elezioni delle rsu,
ove assumano
qualunque iniziativa di dissenso – essenzialmente lo sciopero – contro il
contratto così
concluso.
L’oppressione
della minoranza è allora evidente.
Un sindacato
anche largamente maggioritario tra i lavoratori, ma non maggioritario in
assoluto :
o resta al
di fuori dalle elezioni delle rsu e dallo stesso contratto a cui esse sono
legittimate, e così si
condanna
all’impotenza e alla marginalità;
oppure, se
partecipa alle elezioni e poi intende mobilitare i lavoratori contro il
contratto aziendale che
i suoi
eletti nelle rsu, restando in minoranza, hanno rifiutato, si espone ad azioni
repressive e risarcitorie
della
controparte datoriale.
Il pensiero
corre ancora alla vicenda Fiom/Fiat, con agevole comprensione del fatto che si
è in
presenza del
tentativo di rendere sacre ed intangibili ( dopo aver loro conferito valore
“erga omnes”) gli
“accordi
separati”, con minaccia di esclusione e repressione delle minoranze
dissenzienti.
Si tratta
dunque di una disciplina davvero più che discutibile, perché assume uno schema
di
democrazia
solo formale e implica, a ben vedere, per il sindacato che partecipa alle
elezioni delle rsu,
l’abdicazione
del diritto di continuare a fare politica in azienda, e per di più senza che
esista alcuna garanzia
di
rispondenza tra la maggioranza dei lavoratori e la decisione negoziale della
maggioranza dei membri
delle rsu,
magari elette molto tempo prima dell’insorgenza delle questioni oggetto del
contratto aziendale.
Sarebbe, a
nostro avviso, sbagliato reagire a questo grave pericolo rifiutando di
partecipare alle
elezioni
delle rsu o assumendo una posizione negativa verso l’opportunità/necessità di
una efficacia
generale di
un contratto aziendale.
Bisogna
invece mutare il fulcro del sistema, individuando la fonte legittimante della
disciplina
negoziale ad
efficacia generale nella volontà dei lavoratori da loro direttamente espressa,
mediante
referendum,sull’ipotesi
di accordo siglato dalla maggioranza dei membri delle rsu.
In sintesi,
la rsu negozi e sigli l’ipotesi di accordo, ma devono essere i lavoratori,
mediante referendum,
a conferire
efficacia ( generale) al contratto aziendale.
In questo
modo tutte le contraddizioni si risolverebbero in una finalmente raggiunta
armonia tra
democrazia
rappresentativa e democrazia diretta.
4. In quarto
luogo, l’accordo interconfederale accoglie largamente e acriticamente
l’impostazione
datoriale
relativa al diritto di sciopero fino alla sua virtuale eliminazione.
Il punto di
partenza di questa desolante operazione è costituito da una espressione
contenuta
nell’accordo
che costituisce semplicemente un non senso giuridico, ossia la c.d.
“esigibilità” del contratto
collettivo;
esigibilità che appunto andrebbe garantita contro scioperi di protesta indetti
da minoranze
sindacali
dissenzienti.
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Si rileva
che predicare la ”esigibilità” di un accordo come meta da raggiungere è una
banale tautologia
( un po’
come parlare di “acqua idraulica”), perché nel diritto civile un accordo è di
per sé esigibile nei
confronti
della controparte che lo ha sottoscritto.
Il fatto è
però che nella nostra Costituzione è previsto il diritto di sciopero, che è
proprio un “diritto di
lotta”,
ossia il diritto dei lavoratori associati di contraddire i contratti anche
vigenti, chiedendone un
mutamento
favorevole o rifiutandosi di lavorare alle condizioni esistenti, ritenendole
ingiuste.
E’ un
diritto che si spiega alla luce dell’art. 3, II comma Cost., il quale promuove
la emancipazione della
classe
lavoratrice, così consentendo il riproporsi delle sue istanze rivendicative.
Il diritto
di sciopero è un diritto della persona che appartiene al “genus” dei diritti di
espressione e non
è una semplice
facoltà contrattuale; ciò spiega perché nel nostro diritto siano legittimi gli
scioperi politici, di
solidarietà
e di protesta.
Quanto alla
distinzione tra responsabilità dei sindacati, ai quali dovrebbero essere
chiesti risarcimenti
dei danni
ove organizzino scioperi di protesta, e l’ immunità dalla sanzione per i
lavoratori che vi abbiano
partecipato,
al di là dei profili teorici, si tratta di una concreta ipocrisia, perché il
rapporto tra singolo e
organizzazione
è comunque fisiologico, giacché una protesta spontanea non coordinata dal
sindacato,
avrebbe vita
breve e minima incidenza.
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A questo
punto e in conclusione, ci sembra necessaria quella discussione vera tra
lavoratori e quadri
sindacali
che finora è mancata sulle delicate questioni sollevate dall’accordo10.1.2014
sulla
rappresentanza,
e non può essere surrogata dalla solita votazione a “prendere o lasciare” che
contraddirrebbe
tutta la storia del sindacalismo democratico in Italia.
Questo
modesto contributo è finalizzato ad aiutare la discussione.
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