La filiale
italiana del gruppo svedese ha accumulato negli ultimi tre anni 53 milioni di
perdite, causate però dagli ammortamenti delle spese di apertura di tre nuovi
megastore. Per tutelarsi, ha cancellato il contratto integrativo con cui copre
i picchi di lavoro nei fine settimana. Invocando “il contesto economico degli
ultimi anni", che è "radicalmente mutato”
I quotidiani
nazionali hanno già riportato la cronaca della vertenza Ikea. In sintesi, nel
maggio scorso l’azienda ha disdetto unilateralmente il contratto integrativo
aziendale, che disciplina in particolare le maggiorazioni per i turni
domenicali e festivi. Per motivare la decisione piange miseria, affermando che
“il contesto economico degli ultimi anni è radicalmente mutato”. Una cosa della
quale molti lettori si saranno accorti da un pezzo, ma che per l’azienda pare
essere scoperta recente. Sul Sole 24 Ore dell’8 ottobre scorso, Silvia
Pieraccini ci ricordava che il fatturato dell’Ikea, nonostante la recessione, è
sostanzialmente stabile (-0,2% nell’ultimo anno fiscale). I 53 milioni di
perdite sono quindi dovuti all’ammortamento delle spese di apertura di tre
nuovi punti vendita: Catania, Pescara e Pisa, aperti fra il 2011 e 2014.
La crisi,
però, era iniziata nel 2008 e solo ora si comincia a vedere qualche timido
barlume di ripresa, che potrebbe essere spazzato via in un attimo da un rialzo
dei prezzi delle materie prime o dei tassi statunitensi, o dal crollo dei
mercati emergenti. Aprire nuovi megastore in un contesto simile sembra una
scelta un pochino azzardata, ma naturalmente il rimedio è a portata di mano:
basta scaricarne il rischio sui dipendenti. Questi sono impiegati per lo più
con contratti part-time “verticali”, che coprono i picchi di lavoro del fine
settimana. Per molti di loro la disdetta del contratto integrativo significa
una riduzione del salario che, a spanne, si colloca fra il 20 e il 30%. Il
tutto mentre a livello globale l’azienda vola, come ricordava Repubblica il 28
gennaio, al punto che la casa madre ha potuto distribuire 200 milioni di bonus
ai propri dipendenti. Naturalmente qui in Italia i sindacati non hanno
apprezzato la disdetta del contratto: l’11 luglio è stato indetto il primo
sciopero nazionale, e da allora, dopo la posizione di chiusura assunta
dall’azienda a fine luglio, sono proseguite le manifestazioni, in vista del
prossimo incontro fra le parti, previsto per il 14 settembre. Quella che vi sto raccontando è, per
molti versi, una storia di figli e figliastri: insomma, duole dirlo, una tipica
storia europea. Intanto, fa riflettere il fatto che un’azienda che nasce in
Svezia, paese che ha reagito alla crisi del 2008 svalutando del 20% la propria
corona, venga a casa nostra a svalutare del 20% i salari dei suoi dipendenti. I
paesi europei che sono rimasti fuori dalla gabbia dell’euro volano, e in alcuni
casi (come la Polonia o la Repubblica Ceca) sono anche beneficiari netti dei
fondi europei. Gli abitanti dei paesi che, come l’Italia, hanno aderito senza
precauzioni all’euro “che ci protegge”, hanno un destino segnato: la
svalutazione del loro lavoro. Chi opera in settori esposti alla concorrenza
estera, come la manifattura, ci passa prima (pensate al caso Electrolux), ma
anche chi opera nei settori cosiddetti “protetti”, come il commercio o
l’insegnamento (ricordate “La buona scuola”?), non è al sicuro. Quando la crisi
spinge la disoccupazione verso l’alto, è facile trovare chi sia disposto a
lavorare per meno soldi.
C’è poi un
altro dettaglio che interesserà i tanti che attribuiscono aprioristicamente
agli abitanti del Nord patente di virtù. L’Ikea è riuscita a scandalizzare
perfino l’Economist (che non è esattamente un settimanale comunista) per la
scaltrezza con la quale, grazie a un complicato intreccio di società senza
scopo di lucro e scatole cinesi con sedi in Liechtenstein, Lussemburgo e
nell’immancabile Olanda, riesce ad eludere il fisco.
Peraltro,
l’Ikea è coinvolta anche nello scandalo Luxleak: uno scandalo esploso
nell’autunno scorso, quando si apprese che le autorità del Lussemburgo avevano
garantito trattamenti fiscali di favore a grosse multinazionali. Possiamo
supporre che i funzionari lussemburghesi non siano stati generosi per mera
filantropia: comunque lo scandalo è stato presto sedato, forse per il non
trascurabile dettaglio che una delle persone potenzialmente coinvolte (in
quanto premier del Lussemburgo) è nel frattempo diventato presidente della
Commissione Europea (Jean Claude Juncker). Anche qui figli e figliastri:
nell’Europa che vorrebbe (a chiacchiere) diventare una federazione, unendo i
bilanci pubblici dopo aver unito la moneta, i paesi “più uguali degli altri” ci
fanno concorrenza sleale praticando condizioni fiscali di favore a imprese “più
uguali delle altre”, salvo poi darci periodiche lezioncine di moralità.
La dinamica
figli/figliastri opera anche nel microcosmo. All’interno della stessa Ikea
molti neoassunti hanno tipologie di contratto meno vantaggiose dei loro
colleghi anziani. La disdetta del contratto integrativo quindi non li
danneggia: in quanto “figliastri”, tendono a essere poco solidali coi “figli”
(che a loro volta non si erano posti particolari domande vedendo arrivare
interinali e stagisti, aderendo alla comoda logica dell’“io speriamo che me la
cavo”). La morale di questa vicenda ancora aperta è semplice. Il capitale sa
come vincere la sua guerra: dividendo l’avversario. E allora, non chiedere mai
per chi suona la deflazione: essa suona per te…
da Il Fatto Quotidiano del 2
settembre 2015
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