ARTICOLO DI GIULIANO BALESTRERI e RAFFAELE RICCIARDI ( REPUBBLICA.IT )
La
Bicocca dice addio a Piazza Affari che, sempre meno attraente, quest'anno ha
già incassato l'uscita dell'ex Lottomatica volata a Wall Street. Il Paese si
conferma terra di conquista: dalle telecomunicazioni all'alimentare, dalla moda
alla siderurgia
MILANO
- Pirelli è solo
l'ultimo anello di una catena senza fine. Quella che lega le aziende simbolo
nel made in Italy che lentamente stanno lasciando il Paese preda di investitori
internazionale. D'altra parte il trend è chiaro: nel 2014 gli Ide (Investimenti
diretti esteri) in entrata in Italia ammontavano a 281,3 miliardi di euro con
una crescita del 3,5% rispetto all'anno precendente. Nessun altro ha fatto
meglio. Peccato che come osservano gli analisti si tratta soprattutto di
shopping internazionale: di aziende o fondi che comprano società italiane.
Operazioni a 360 gradi che coinvolgono ogni settore industriale: dalla moda
all'alimentare, dalle tlc all'energia fino all'industria pesante.
La
Pirelli, diventata cinese, oggi dice addio a Piazza Affari: è solo l'ultimo caso a
dimostrazione di una generale disaffezione delle società nei confronti del
listino milanese. Ferrari ha scelto Wall Street per il suo collocamento, mentre
Prada ha preferito Hong Kong e lo scorso due aprile Gtech, l'ex Lottomatica, ha
traslocato da Milano a New York. Dal punto di vista industriale, quest'anno
l'Italia è già stata terra di conquista sul fronte delle telecomunicazioni: il
controllo di Telecom è passato dagli spagnoli di Telefonica ai francesi di
Vivendi, mentre in questi giorni l'imprenditore transalpino Xavier Niel ha
annunciato di avere azioni e derivati per un altro 15% del capitale. Del resto
delle tlc italiane non resta più nulla: Vodafone ha rilevato l'ex Omnitel,
passata prima tedesca poi inglese; Wind dal 2005 è uscita dal perimetro
dell'Enel per passare al magnate egiziano Naguib Sawiris e poi ai russi di
Vimpelcom nel 2011 (poche settimane fa è stato raggiunto l'accordo per la
fusione con 3 Italia del gruppo H3g).
Ma sotto il
controllo straniero sono finite anche altri colossi come Edison, controllata
dai francesi di Edf da un decennio, e il gruppo Italcementi della famiglia
Pesenti che è stato ceduto ai tedeschi di Heidelberg. La stessa Alitalia dalla
privatizzazione a oggi ha cambiato più volte bandiera: l'ultima è quella degli
Emirati Arabi attraverso Ethiad. Un anno fa era stata Indesit a salutare
l'Italia con la cessione da parte dei Merloni agli americani di Whirlpool.
Ducati e la Lamborghini fanno da tempo del gruppo Volkswagen. Insomma mentre
l'Italia resta una terra a fortissima attrazione per gli investitori
internazionali, il percorso inverso è sempre più complicato e le imprese
nostrane capaci di andare a fare shopping all'estero sono sempre meno. L'unico
caso di internazionalizzazione recente è Fiat con Chrysler e Cnh, ma che ha
comportato il trasferimento delle sedi da Torino ad Amsterdam e Londra.
E se di
fronte ad acquisizioni "pesanti" la spiegazione più ricorrente è
quella del nanismo, altre "migrazioni" all'estero di marchi trovano
una spiegazione solo nella mancanza di una politica industriale inesistente o
incapace di supportare le aziende in alcuni momenti difficile come il cambio
generazionale e la competizione sempre più agguerrita dovuta alla
globalizzazione. Così, al di là della semplice volontà di alcuni imprenditori
di far cassa, dalla moda all'alimentare, l'Italia ha assistito alla cessione di Grom alla multinazionale
olanedese Unilever. Lo scorso anno era stata la pasta Garofalo che aveva
annunciato l'ingresso nel capitale con una quota del 52% degli spagnoli di
Ebro, multinazionale che opera nei settori del riso, della pasta e dei
condimenti, quotato alla Borsa di Madrid: un investimento da "appena"
62 milioni di euro che seguiva quello da 18 milioni con cui nel 2013 avevano
rilevato il 25% della Riso Scotti di Pavia (la famiglia italiana, però, ha
mantenuto la maggioranza con il 75% del capitale). Parmalat è stata acquisita
dai francesi di Lactalis. Prima ancora, la stessa sorte era toccata ai Baci
Perugina e alla Star. Poi i grandi della moda: Versace è stato l'ultimo dopo
Krizia. Loro Piana è passata ai francesi di Lvmh con Bulgari e la pasticceria
Cova. Perfino Luca Cordero di Montezemolo, che ambiva a un ruolo di
ambasciatore del made in Italy all'estero e a creare un polo del lusso col suo
fondo Charme, si è rivelato un imprenditore del mordi e fuggi e ha ceduto
Poltona Frau agli americani di Haworth.
I
marchi del lusso che hanno detto addio all'Italia.
Rimane solo
l'incapacità del Paese di fare sistema, di portare avanti una politica
industriale che favorisca la creazione di campioni nazionali e internazionali o
di difendere distretti capaci di crescere e competere, ma spesso abbandonati a
se stessi. L'Italia resta così condannata al nanismo industriale, nonostante la
presenza di eccellenze che il mondo invidia.
Il
made in Italy in mano straniera.
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