mercoledì 27 gennaio 2016

IL SINDACATO DELLA TERZA REPUBBLICA

Un moderno sistema di relazioni industriali. Così si intitola il manifesto neo-corporativo che i sindacati confederali consegnano al padronato per sopravvivere al discredito e all’impotenza generati dalla loro ignoranza e dai loro tradimenti.

Articolo di Alessandro Bartoloni dal sito : LA CITTA’ FUTURA.IT


Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica è stato segnato da grandi cambiamenti. Uno di questi è la ridefinizione dei rapporti tra lavoratori e imprenditori per mezzo dei famigerati accordi dei primi anni novanta. Nell’attuale fase storica, che molti descrivono come passaggio dalla seconda alla terza repubblica, non poteva mancare anche la riscrittura di tali relazioni. Siamo appena agli inizi e dalle sprezzanti parole che Squinzi riserva al documento non è detto che il confronto tra sindacati e associazioni padronali vada avanti così come impostato dai confederali. Tutto dipende dall’evoluzione della situazione economica, dai rapporti di forza e dalla lotta di classe. L’inasprimento della crisi o l’eccessiva arrendevolezza da parte dei lavoratori potrebbero suggerire soluzioni diverse, ancor più unilaterali e individualizzanti, “tendenti a vanificare il ruolo della contrattazione, a partire dai contenuti delle leggi”. Tuttavia, leggendo le proposte avanzate dai Cgil, Cisl e Uil nel documento intitolato “Un moderno sistema di relazioni industriali” non c’è da aspettarsi che il peggio da parte di quelli che una volta erano i nostri. La lunga stagione di collusione si conclude col peggior collaborazionismo e il disarmo teorico nell’incapacità di comprendere gli effetti che la riorganizzazione produttiva in atto sta avendo in Italia. Privi dell’autorevolezza per venir posti quali rappresentanti legittimati direttamente dai lavoratori, i confederali cercano nella controparte padronale l’autorità necessaria alla propria sopravvivenza. Non a caso il documento non è stato discusso con i lavoratori ma presentato direttamente alle associazioni imprenditoriali.


Per quanto riguarda la Cgil la mutazione genetica è finalmente compiuta. Si abbandona la stessa idea di rivendicazioni fondate sulla coscienza dell’immanente antagonismo tra capitale e lavoro per farsi garanti dell’ulteriore depauperamento delle condizioni retributive e lavorative dei salariati, abbracciando la più bieca e ipocrita unione di intenti con il punto di vista e gli interessi padronali. Già il sottotitolo del documento “per uno sviluppo economico fondato sull’innovazione e la qualità del lavoro” è agghiacciante. Neanche un accenno alla piena occupazione o, per dirla in maniera più scientifica, al pieno sfruttamento di tutta la forza-lavoro disponibile. Eppure qualcuno, per lo meno nella Fiom, dovrebbe ricordare che il plusvalore aumenta se si incrementa il tempo di lavoro, dunque anche la forza-lavoro occupata. Se aumenta solo in virtù dello sviluppo delle forze produttive è perché diminuisce la parte della giornata lavorativa destinata a riprodurre il valore della forza-lavoro, vale a dire il salario. A meno che non si voglia spacciare per produttività il volgare aumento del lavoro estorto agli operai che si ottiene attraverso l’incremento dei ritmi e della saturazione oppure attraverso la diminuzione dei tempi morti.

Come per la produttività, anche il richiamo alla flessibilità è ipocrita e dannoso. I confederali si dicono pronti ad “esercitare la rappresentanza e la tutela di tutte le forme contrattuali presenti nello stesso luogo di lavoro, superando le divisioni tra lavoro maggiormente tutelato e le forme più precarie, per affermare una effettiva parità di diritti ed una reale stabilità dell’occupazione”. Le disparità di trattamento tra lavoratori che svolgono mansioni uguali, dunque, non avrebbero origine dall’insanabile contrasto tra l’esigenza di accumulare profitto e lo sviluppo delle forze produttive e dei consumi – che richiede la presenza di un serbatoio di forza-lavoro flessibile e continuamente disponibile per rimanere competitivi al mutare delle condizioni di mercato – ma dal deficit di rappresentanza. Con buona pace dei lavoratori, una volta sanato questo vulnus, il precariato può continuare ad esistere senza più contrasti da parte confederale, in modo da garantire ai padroni la necessaria flessibilità e arbitrarietà nell’uso, nell’acquisto e nel pagamento della forza-lavoro. La flessibilità, infatti, non deve più esser ricondotta ad esigenze eccezionali e temporanee delle imprese bensì “ai suoi autentici obiettivi, relativi allo sviluppo della produttività e di una competitività fondata sulla ricerca, sull’innovazione, sulla qualificazione e valorizzazione delle risorse umane e sulla crescita del valore aggiunto”. La flessibilità come condizione per la crescita dei profitti.

I confederali, ignorando l’inevitabile de-qualificazione e de-specializzazione connesse al trasferimento di abilità dal lavoro vivo alle macchine, auspicano “la ricerca di una maggiore produttività attraverso un investimento sulla risorsa lavoro” e non “svalorizzandone il contenuto” e di conseguenza “un ampliamento dell’esperienza compiuta in questi anni sul salario di produttività”. In questo modo il salario non viene più posto come prezzo per la riproduzione sociale della forza-lavoro determinato dal valore dei mezzi di sussistenza e dalla concorrenza tra le braccia disponibili sul mercato. Al suo posto viene messo un prezzo corrispondente al presunto apporto dato dal lavoro del singolo al conseguimento del prodotto, occultando così lo scambio ineguale tra capitale e (uso della) forza-lavoro, ossia lo sfruttamento.

Questa mistificazione è alla base della “logica della salvaguardia del potere di acquisto, che nasceva da una esigenza di contenimento salariale in anni di alti tassi di inflazione” e che ha governato l’azione sindacale dai tempi della svolta dell’Eur. Logica stupefacente! Si moderano i salari per abbassare il tasso di inflazione, in ossequio agli equivoci dominanti nella scienza economica borghese, e contemporaneamente si dice di tutelare il potere di acquisto dei lavoratori. Per il futuro, invece, “le dinamiche salariali dovranno contribuire all’espansione della domanda interna, a contrastare le pressioni deflattive sull’economia nazionale, a stimolare la competitività delle imprese e la loro capacità di creare lavoro stabile e qualificato, nonché a valorizzare l’apporto individuale e collettivo delle lavoratrici e dei lavoratori”. A diminuire le disuguaglianze tra chi vive di salario e chi vive di profitto o rendita, neanche a parlarne. Si rischierebbe di ricadere nel “vecchio” sistema di relazioni industriali fondato sul conflitto e magari richiedere indietro una quota maggiore del plusvalore prodotto dagli operai e democraticamente utilizzato dai padroni.

Di conseguenza, il salario diretto viene determinato nel contratto nazionale sulla base “delle dinamiche macroeconomiche, non solo riferite all’inflazione” e “degli andamenti settoriali” e nel contratto di secondo livello sulla base della performance aziendale, collettiva e individuale. Il riferimento ai Ccnl, però, non deve ingannare. “L’esperienza di questi anni suggerisce un sistema generale di regole basilari, sulle quali poter innestare in modo flessibile gli adeguamenti/aggiornamenti necessari, realizzando così una effettiva complementarietà fra tutti i livelli” contrattuali. Una flessibilità al ribasso, come dimostrano i vari accordi sulla rappresentanza firmati in questi anni, destinata a svuotare di senso il Ccnl. Non a caso “l’obiettivo di Cgil, Cisl e Uil è quello di rafforzare, quantitativamente, attraverso una sua maggiore estensione e, qualitativamente, attraverso un regolato trasferimento di competenze, la contrattazione di secondo livello”. E per contribuire alla sua implementazione, va addirittura “prevista da parte dei Ccnl la possibilità di effettuazione della contrattazione a livello aziendale, di gruppo, di sito, di unità produttiva/operativa”.

A sostenere il salario indiretto e differito, invece, ci penserà direttamente il welfare aziendale, opportunamente contrattualizzato in modo da permettere anche ai confederali di partecipare al banchetto, essendo co-gestori dei fondi ai quali i lavoratori dovranno rivolgersi per avere servizi decenti. Al di là delle frasi di rito, siamo di fronte al completo abbandono di qualunque difesa del servizio sanitario nazionale e della pensione erogata dallo stato, progressivamente integrati per poi essere sostituiti. “Occorre rilanciare il ruolo del secondo pilastro per assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale”, non certo combattere per un ritorno al sistema retributivo. “Occorre favorire lo sviluppo di condizioni che consentano di contemperare l’obiettivo di migliorare la tutela e la reddittività dei patrimoni con l’interesse generale a convogliare una quota maggiore del risparmio previdenziale a sostegno dell’economia reale e dell’occupazione”. Incentivando tali fondi e tacendo i pericoli connessi ad investimenti non profittevoli, l’adeguatezza della prestazione previdenziale alle esigenze dei lavoratori viene subordinata alla massimizzazione dei contributi versati per venire incontro alle necessità dei loro utilizzatori capitalisti. Dal canto loro, i fondi di sanità integrativa, “attraverso il convenzionamento con le strutture pubbliche, possono rappresentare un fattore di sostegno del sistema universale di tutela”. Quando gli addetti ai lavori sanno benissimo che la commistione pubblico-privato, anche relativa alle prestazioni lavorative dei medici, determina inevitabilmente un trasferimento di ricchezza dal primo al secondo.

Insomma, i confederali propongono un “nuovo sistema di diritti di cittadinanza” che include anche “percorsi di alternanza scuola/lavoro”. Anche in questo caso abbiamo fondi paritetici interprofessionali che possono svolgere il triplice obiettivo di portare fondi nelle casse confederali, “valorizzare il lavoro assumendo il diritto all’apprendimento e alla formazione permanente” e “rispondere efficacemente ad un ruolo di promozione culturale rispetto ad un nuovo ed innovativo sistema di relazioni industriali”. Quest’ultimo obiettivo realizzato attraverso “iniziative formative che coinvolgano in modo più diffuso il maggior numero possibile di delegati sindacali” fino ad arrivare alla “formazione congiunta: iniziative co-progettate e co-gestite tra le parti sociali e che si rivolgono sia ai delegati sindacali che al management aziendale”. E stroncare sul nascere l’autonomo sviluppo di un pensiero critico rispetto alla gestione delle aziende o dell’operato del sindacato.

Che si tratti di vero e proprio indottrinamento lo si capisce dal richiamo al diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende. “Dato il fine dell’armonia tra elevazione economica e sociale del lavoro e le esigenze della produzione” si abbandona qualunque richiamo al superamento non solo dello sfruttamento ma anche dell’anarchia che governa i rapporti tra i capitalisti. Dal testo dei confederali, infatti, è evidente che la partecipazione al governo delle aziende è richiesta per permettere a queste di “misurarsi in termini competitivi in uno scenario globale” e per esorcizzare la paura “della esigenza ineludibile per l’intero sistema di imprese del nostro paese di assumere e governare scelte strategiche e complesse”. Sono queste, infatti, che hanno causato il continuo scivolamento dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro e saranno queste a determinare la composizione e la qualificazione della forza-lavoro nei prossimi lustri. Consapevoli di essere di fronte ad “una ‘rivoluzione tecnologica e digitale permanente’ che abbatte i cicli temporali tradizionali, che richiede velocità decisionale e gestionale e processi continui di trasformazione e adattamento delle imprese stesse”, i confederali che fanno? Invece di ricordare che il problema, per i lavoratori, non è la ristrutturazione produttiva in quanto tale ma la sua subordinazione al fine privatistico dell’accumulazione di profitto, propongono l’estensione della bilateralità quale “modello di partecipazione nei sistemi diffusi di impresa” e il modello duale per dare “piena e formale cittadinanza nelle decisioni ai rappresentanti espressi/eletti dai lavoratori”. In questo modo si fa cassa e si impone ai lavoratori di partecipare alla definizione delle scelte lacrime e sangue, insostenibili e criminali che inevitabilmente caratterizzano qualunque impresa operante in un paese capitalistico.
E a chi non si lascia abbindolare o convincere, a chi dissente, che succederà? Ci penserà il legislatore, a cui viene richiesto il “recepimento di quanto definito dalle parti sociali”, in particolare di tradurre in legge quanto stabilito dal testo unico sulla rappresentanza, alla cui analisi si rimanda anche per tutto ciò che concerne l’esigibilità dei contratti e i diritti dei rappresentanti. “Su queste basi è possibile rilanciare un progetto di unità sindacale”.

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