venerdì 30 gennaio 2015

TEATRO ALLA SCALA E PRIMO MAGGIO 2015 Un solo urlo : MAY DAY … MAY DAY !!!

Da alcune settimane, i dipendenti del Teatro Alla Scala assistono, e talvolta partecipano, alla sceneggiata che riguarda l’inaugurazione dell’Expo di Milano che è prevista avvenga con la messa in scena della TURANDOT di Puccini alla Scala.
 Come nella migliore tradizione lirica, un coro di figuranti ed interpreti scandisce, con toni più o meno alti, più o meno drammatici,  alle orecchie dei lavoratori del “Teatro Alla Scala” inviti e richieste affinchè rinuncino al loro sacrosanto diritto di festeggiare il Primo Maggio e vadano a lavorare nel nome dell’unicità dell’evento Expo.
 A dare il via alla “bagarre” è stata la lettera inviata a ciascun lavoratore dal Sovraintendente Pereira, nella quale chiede la disponibilità a lavorare il Primo Maggio per il bene dell’Expo, di Milano, del Teatro in cambio a gratitudine e ad una ricompensa sotto forma di bonus extra, come comunicato a Cgil-Cisl-Uil-Fials che, per quanto viene dato di sapere, risponderebbe ad una maggiorazione del 140% per gli orchestrali ed il coro e del 100% per tutti gli altri. La lettera del Sovraintendente è una sorta di referendum circa la disponibilità da parte dei lavoratori a rinunciare ad “un diritto non rinunciabile e non contrattabile”, mettendoli nell’ingrata condizione di poter essere considerati non responsabili. Si tratta di un manicheismo che consideriamo inaccettabile.
 Si parte davvero male e questo non annuncia nulla di buono in vista delle future contrattazioni sul Contratto Unico previsto dallo Statuto di Autonomia concesso alla Fondazione Teatro Alla Scala. Questa richiesta s’inquadra in un contesto nel quale il Ministro della Cultura Franceschini ha espresso pericolose idee in tema di diritti nel settore della produzione culturale ed il particolare circa il diritto di sciopero.
Riconfermiamo la posizione da noi già espressa a dicembre nel volantino titolato “Pacchi Natalizi” ovvero che nell’evento Expo non c’è nulla da festeggiare. Fin dall’inizio dei lavori, così come in altri grandi eventi, sono emersi alti livelli di corruzione e collusione con associazioni mafiose, di sperpero di danaro pubblico e di decine di aziende degli appalti allontanate dal Prefetto e dal Dott. Cantone perché in odore di malavita organizzata, oltre alla distruzione del territorio e dei disagi arrecati alla popolazione.
 Il Primo Maggio, a Milano, arriveranno Capi di Stato e di Governi, molti dei quali responsabili di guerre, dittature, discriminazioni, genocidi dei popoli indigeni, di fame, malattie e violazioni dei diritti umani, politici e sindacali.
Il tema dell’Expo è “NUTRIRE IL PIANETA” ed a questo si può aggiungere “O LE MULTINAZIONALI?”.
 Ci piacerebbe che, il Sovraintendente dedicasse l’impegno posto per l’inaugurazione scaligera dell’Expo alla soluzione delle vertenze aperte, in primis quelle riguardanti “le lavoratrici ed i lavoratori a prestazioni serali” e del Personale di Sala, oltre alle “ferite” ai diritti quali il pagamento della malattia o la questione del “settimo giorno” e, magari, guardandosi bene attorno, potrebbe scoprire che i problemi di corruzione non si limitano all’Expo. Ci piacerebbe che finissero le discriminazioni sindacali nei nostri confronti e dei lavoratori.
 Il Primo Maggio 2015, a Milano, si terrà un altro grande evento: la più grande edizione della MAY DAY mai vista.
Da tutta Europa arriveranno i rappresentanti di quel popolo massacrato dalle politiche di austerità dell’Unione Europea, della BCE e della Merkel e del Fondo Monetario Internazionale.
 Migliaia di disoccupati, precari, pensionati ridotti alla fame, sfrattati, senza casa, migranti, lavoratori sfruttati, esodati, sindacati di base ed associazioni, NO TAV, NO TRIV, ambientalisti, centri sociali, … si troveranno scandendo May Day, May Day.
 Vorremmo che a questo grande evento di popolo partecipassero anche tutti i dipendenti del Teatro Alla Scala.
 Sarebbe il miglior modo per far capire a Capi di Stato, alle Multinazionali, al nostro Governo, a Squinzi ed alla Confindustria, alla Camusso, ai firmatari del JOB ACT ed alle “varie Segreterie di questi e di quelli” che devono CAMBIARE MUSICA perché la musica in Europa sta già cambiando.

                                                                  C.U.B. INFORMAZIONE
Milano, 28.01.2015


sabato 24 gennaio 2015

Accordo di rappresentanza: il vademecum realizzato da NO AUSTERITY

QUALE RAPPRESENTANZA PER I LAVORATORI?



Confindustria, Confcoorperative e le organizzazioni sindacali confederali Cgil, Cisl, Uil e Ugl hanno firmato un vergognoso accordo sulla rappresentanza che attacca la democrazia sostanziale nei luoghi di lavoro, da un lato impedendo ai lavoratori il diritto di scegliere liberamente i propri rappresentati sindacali, dall'altro negando ai sindacati e agli attivisti non collaborativi ogni agibilità sindacale e ogni diritto di espressione.

Con tali accordi i padroni e il governo tentano di indebolire le lotte dei lavoratori e la capacità di mobilitazione delle organizzazioni conflittuali contro le nuove vergognose regole del mercato del lavoro. Con il Jobs Act e la Legge di stabilità il governo Renzi, Confindustria e Marchionne stanno distruggendo tutti i diritti e le tutele (a partire dallo Statuto dei lavoratori) guadagnati dai lavoratori con le dure lotte degli anni Sessanta e Settanta. Si cerca di far passare come normale un sistema basato su: condizioni salariali al limite della povertà; distruzione delle tutele e aumento della disoccupazione; repressione aziendale; precariato come modello sociale strutturale; distruzione di sanità, scuola, trasporti pubblici; sfratti di massa e negazione del diritto alla casa.

L'accordo della vergogna sulla rappresentanza è strategico per governo e Confindustria: mira a indebolire le organizzazioni conflittuali della classe lavoratrice, per impedire una risposta di lotta ai loro attacchi e un'alternativa a questo modello sociale. Gli apparati dei sindacati confederali concertativi, succubi delle politiche padronali degli ultimi anni, si prestano a questo gioco, al fine di garantire il proprio status e i propri privilegi. 



Misura e certificazione della Rappresentanza

Si nega ai sindacati non firmatari di contratto collettivo nazionale (CCNL) le deleghe automatiche per le tessere, e parallelamente si misura la rappresentanza in funzione delle deleghe stesse come concordate con le aziende e certificate da enti governativi quali Inps e Cnel. Con un solo colpo dunque si mina economicamente la capacità organizzativa dei sindacati conflittuali che non hanno firmato accordi al ribasso per i lavoratori e d'altro lato si impedisce agli attivisti sindacali conflittuali la possibilità di rappresentare le legittime aspettative dei lavoratori. 



Elezioni delle RSU e contrattazione collettiva 

Il presupposto per partecipare alle elezioni RSU è la firma dell'accordo del 10 gennaio 2014. Inoltre, potranno partecipare alla contrattazione collettiva, sulla base dei dati associativi comunicati al CNEL, i sindacati che avranno raggiunto la soglia del 5%, sulla base di una media tra le iscrizioni al sindacato certificate (in prima istanza dalle aziende!) e il dato elettorale delle rsu. Comunque i voti legittimamente raccolti - e gli eventuali rappresentanti eletti - da tutti quei sindacati o liste che non hanno firmato l'accordo in questione non saranno ritenuti validi. Inoltre i delegati RSU regolarmente eletti che decidessero di cambiare tessera sindacale dopo l'elezione decadono automaticamente dal loro ruolo di delegati. L'elezione della RSU, sia per il rinnovo che per il passaggio da RSA a RSU contemplato nell'accordo stesso, potrà avvenire solo a discrezione dei sottoscrittori dell'accordo.



Limitazione di Diritti e Tutele

Le RSU e le organizzazioni sindacali che sottoscrivono gli accordi non potranno organizzare scioperi e forme conflittuali di protesta contro i contratti e gli accordi firmati, pena multe e perdita di agibilità sindacale. Non potranno nemmeno più organizzare proteste e scioperi durante le trattative (mentre sappiamo bene che gli scioperi durante le trattative sono l'unica garanzia che hanno i lavoratori di riuscire a strappare qualche conquista!) I padroni e le direzioni dei sindacati concertativi tentano così di mettere in atto, senza tener conto del punto di vista delle lavoratrici e dei lavoratori, una forte limitazione della democrazia nei luoghi di lavoro: il diritto alla tutela diventa un fatto meramente discrezionale, deciso dai soggetti firmatari degli accordi. Tutto ciò serve per tentare di mettere fuori gioco tutti coloro che provano a contrastare le politiche di continua riduzione dei diritti dei lavoratori, al fine di favorire lo sviluppo di un mercato del lavoro governato dalla precarietà e dalla massima flessibilità.



CONDANNA E CONTRASTO DELL'ACCORDO VERGOGNA



Come coordinamento No-Austerity, insieme con le organizzazioni e gli attivisti che hanno promosso la campagna per la democrazia nei luoghi di lavoro, crediamo che l'accordo sulla rappresentanza rappresenti una truffa colossale, un pesante attacco ai diritti democratici e al futuro dei lavoratori e dei giovani. 

Un provvedimento tanto vergognoso e liberticida che pensiamo debba indignare anche iscritti e attivisti dei sindacati che lo hanno sottoscritto, attivisti a cui facciamo appello per una comune mobilitazione. Invitiamo pertanto tutte le realtà sindacali a respingere e non sottoscrivere l'accordo in nessuna categoria o singola azienda, rafforzando un fronte unitario di lotta, necessario a contrastare ad ogni livello e con tutti i soggetti interessati l'accordo della vergogna.



COSA FARE NELLE ELEZIONI DELLE RSU?

In generale, i lavoratori conquistano e difendono i propri diritti nei luoghi di lavoro (inclusi quelli sulla rappresentanza) solo scendono in campo e in lotta uniti e determinati. Nessun accordo potrà mai ingabbiare il conflitto: solo costruendo con le lotte i rapporti di forza che permettano di respingere gli attacchi dei padroni riusciremo a strappare per i lavoratori reali diritti di rappresentanza. Anche per questo crediamo che la premessa per non far passare questo attacco sia quello che i sindacati non lo firmino, diversamente accetterebbero di diventare sindacati aziendali e concertativi. 

Concretamente, tali provvedimenti che ledono la dignità dei lavoratori e della democrazia possono essere contrastati con modalità diversificate in base ai rapporti di forza nelle singole realtà lavorative, fermo restando il fatto che, laddove la presentazione di candidati rsu (o la nomina di rsa) implichi la sottoscrizione o condivisione di fatto degli accordi, non vanno presentati candidati (né nominati rsa), poiché questo significherebbe una capitolazione agli accordi stessi. 

· Le prime azioni di contrasto possono essere di tipo legale laddove i regolamenti elettorali (come già accaduto) dovessero escludere i sindacati non firmatari dell'accordo dalla possibilità di presentare liste, condizione non espressamente prevista dagli accordi: lo scopo di un azione legale di questo tipo è quello di dimostrare sul campo la propria rappresentatività, che se poi negata diventerebbe un'arma a doppio taglio per i firmatari.

· Dove i rapporti di forza sono favorevoli alle organizzazioni sindacali non firmatarie è possibile anche boicottare le elezioni RSU che sono valide solo se vota il 50%+1 degli aventi diritto. 

· Laddove esistano i rapporti di forza, è possibile procedere ad elezioni in deroga a quanto siglato a livello nazionale, procedendo localmente alla stesura di regolamenti elettorali che stravolgano di fatto le regole dell'accordo e permettano la libera partecipazione di tutte le organizzazioni sindacali (condizione già concretizzatasi in alcune aziende).

· L' RLS (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza) è disciplinato da un decreto legge, difatti le OS firmatarie non hanno potuto inserirlo nell'accordo vergogna: è quindi possibile puntare sull'elezione dell'RLS che non può essere sottratto alla libertà di scelta dei lavoratori.

· Soprattutto è fondamentale oggi più che mai che i lavoratori riconoscano e individuano come unici interlocutori, tutori dei propri diritti e reali rappresentati dei propri interessi e delle proprie aspettative, gli attivisti sindacali e le organizzazioni che non si piegano ai tentativi di cancellare ogni democrazia sui luoghi di lavoro e ogni loro possibilità di riscatto e di futuro, impegnandosi attivamente nella costruzione della mobilitazione diretta e libera. Chiediamo per questo ai lavoratori di non votare i candidati di sindacati che hanno firmato l'accordo.

Le realtà e gli attivisti che aderiscono al coordinamento No Austerity e alla campagna contro l'Accordo della Vergogna, sono disponibili a organizzare incontri con i lavoratori, iniziative ed assemblee pubbliche a sostegno della mobilitazione.

INVITIAMO TUTTE LE REALTÀ SINDACALI AD ADERIRE E SOSTENERE LA CAMPAGNA 

scrivendo a: info@coordinamentonoausterity.org



Aderiscono alla campagna contro l'accordo: Coordinamento No Austerity, Cub Toscana, Rsa Fiom Ferrari, Flmuniti Cub Ferrari, Rsu 47 Bordo Trenitalia Firenze, Licenziati politici Esselunga di Pioltello Si.Cobas, Coordinamento Migranti Verona, Resistenza Operaia - Fiat Irisbus, Usb Cremona, Rsu Cub Cobas Telecom Puglia, Si.Cobas Bergamo, Movimento Cassintegrati Telcom, Cub Sur Modena, Precari della scuola in lotta Modena, Cub Sanità Cremona, Rsa Fisac Cgil Equitalia Nord (CR), Rsu Fiom La Protec San Giovanni in Croce, Cobas Monopoli, Comitato No licenziamenti Eco Leather (BA), Allca Cub Bolzano, Cub Vicenza, Flmu-Cub Telecom Italia (nazionale), Il sindacato è un'altra cosa-opposizione Cgil Puglia, Coordinamento 3 ottobre (precari scuola) Milano, Coordinamento Lavoratori Cub Pirelli Bollate, Il sindacato è un'altra cosa - opposizione Cgil Cremona, Usb Salerno, Cub Barletta-Andria-Trani, Operai Liberi Fim Cisl Lecco,  Il sindacato è un’altra cosa-opposizione in Cgil Vicenza, USI Milano, Cub Caltanissetta, Flaica Uniti Cub Caltanissetta, Cub Poste Padova, Cub Sanità Salerno AOU Ruggi d'Aragona, Confederazione Sindacale Unione Sindacale Italiana USI, Cub-Cobas Comune di Bologna, Flmuniti Cub Parma, Cub provinciale intercategoriale Catania, ALP/Cub -Associazione Lavoratori Pinerolesi, Usi Ait Modena,  Usi Caltanissetta, Slai Cobas TPL Toscana, Intersindacale di Brescia (Il sindacato è un'altra cosa/Cobas/Sindacato Orma/Si.Cobas).   

http://www.coordinamentonoausterity.org/



sabato 17 gennaio 2015

La Fiom firma il patto sociale. Landini è nudo Venerdì, 24 Maggio 2013 Redazione Contropiano

Il Comitato centrale della Fiom firma per il patto sociale. Tomaselli (USB) e Bellavita (Rete 28 aprile-Fiom) durissimi contro questa scelta. "Landini è nudo". Il dopo manifestazione è servito, come volevasi dimostrare.


Qui di seguito le dichiarazioni rilasciate oggi da Tommaselli e Bellavita:
Maurizio Landini è nudo. L’ok della Fiom all’accordo sulla rappresentanza strappa il velo alla presunta opposizione sindacale.
di Fabrizio Tommaselli (USB)
“Per mesi il ‘faccione fotogenico’ di Landini ha imperversato nelle trasmissioni televisive di tutti gli orientamenti politici, battendo forse il record di Renata Polverini, rapito da una popolarità costruita sulla presunta radicalità delle posizioni della ‘sua’ Fiom”, osserva Fabrizio Tomaselli, dell’Esecutivo Confederale USB. “Poi, nonostante a parole si scontrasse con la sua confederazione, Landini non ha voluto rompere veramente con la ex-socialista Camusso e, alla luce degli ultimi fatti, probabilmente non ha mai avuto questa intenzione”.
“Landini ha preso schiaffi a ripetizione da Marchionne – prosegue il dirigente USB - ululando alla luna ma senza essere coerente con le posizioni che evocava continuamente. Allora ha ingranato la retromarcia e, come primo atto, è passato all'epurazione della sinistra interna e all'isolamento di qualsiasi dissenso dentro la Fiom. A stretto giro è seguito il riavvicinamento alla politica, con l'elezione del numero due della Fiom Airaudo nei banchi di SEL; pronti a entrare al governo, ma gli è andata male”.

Rileva Tomaselli: “Infine la svolta decisiva verso centro, per proporsi come guida di tutta la CGIL nel prossimo congresso, contro la Camusso, ma nella stessa maggioranza. Lo scorso 23 maggio il Comitato Centrale Fiom, con 77 voti contro 11, ha approvato un documento che dà il via libera al nuovo accordo sulla rappresentanza predisposto da Camusso, da Bonanni, da Angeletti e dalla Confindustria di Squinzi”.
“Un accordo che imporrà contratti non contestabili, limiterà le libertà dei lavoratori, la democrazia sui posti di lavoro e il diritto di sciopero”, denuncia il dirigente USB.
“Ora Maurizio Landini è nudo”,  esclama Tomaselli, che conclude: “ Basta con i falsi miti di una certa sinistra. Costruire il sindacato indipendente e conflittuale che serve ai lavoratori, come sta facendo l’USB, non è più una opzione possibile, ma l'unica possibilità per i lavoratori di ricostruire una rappresentanza libera e democratica”.

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Dalla Fiom via libera al patto sociale
di Sergio Bellavita portavoce Rete 28Aprile Fiom


Non sappiamo come si concluderà la cosiddetta trattativa su rappresentanza e democrazia avviata semiclandestinamente tra i vertici di Cgil Cisl Uil e Confindustria. Trattativa che pareva fino a pochi giorni fa  in dirittura d'arrivo ed oggi e' nuovamente scomparsa nel mellifluo pantano della difficile composizione dei diversi e sostanziosi interessi padronali,politici e sindacali in gioco. Non conosciamo ovviamente i dettagli dell'accordo che verrà, ne' il livello di asprezza del sistema sanzionatorio che accompagnerà il nuovo modello di relazioni.
Cosi come  non sappiamo quale giudizio particolareggiato esprimerà il comitato centrale della fiom sull'accordo stesso.
Quello che sappiamo con certezza è che si prefigura un sistema corporativo, liberticida e autoritario in cui il voto dei lavoratori diventa, non già la conquista del diritto democratico a decidere sui contratti che li riguardano, ma esattamente  lo strumento per accompagnare la contrattazione di ricatto, di restituzione e per impedire infine l'esercizio dell'opposizione sindacale. Così come sappiamo purtroppo, che la maggioranza del gruppo dirigente Fiom ha dato via libera proprio a quel patto sociale.
Lo ha fatto in maniera esplicita, senza tentennamenti ne' infingimenti. ll massimo organismo Fiom riunito giovedì 23 maggio era infatti chiamato a esprimere un giudizio compiuto  sui contenuti della trattativa a livello confederale.
La seduta cadeva dopo gli esecutivi unitari del 30 aprile scorso che hanno licenziato l'intesa Cgil Cisl Uil su rappresentanza e democrazia che è oggi oggetto della trattativa con Confindustria.
In relazione  Landini ha presentato l'accordo interno a  Cgil Cisl Uil come una sostanziale affermazione delle battaglie della Fiom per il diritto democratico dei lavoratori di decidere sui contratti che li riguardano.
Un giudizio che non condividiamo ed anzi riteniamo reticente rispetto alla vera natura del patto che si profila. Per questa ragione abbiamo provato a ragionare su un solo punto, il tema dell'esigibilità degli accordi. Proponendo di riconfermare quella che pareva un'ovvietà: la contrarietà Fiom al modello Marchionne che esclude i sindacati non firmatari cancellandone la rappresentanza interna e che per questa ragione impedisce il diritto dei lavoratori ad opporsi ad accordi capestro. Il modello, per capirci, che ancora oggi tiene la Fiom e i suoi delegati fuori dai cancelli e senza agibilità.
Eppure quella che doveva essere un'ovvietà, è stata considerata addirittura alternativa al giudizio positivo sull'intesa Cgil Cisl Uil espresso nell'ordine del giorno finale della segreteria nazionale e posta in votazione contrapposta.
L'ennesimo voto di fiducia al segretario che impedisce, ormai da anni, la libera discussione del Comitato Centrale. Una scelta grave che conferma la linea del progressivo rientro, dopo aver abbandonato ogni volontà conflittuale, negli angusti spazi del sindacalismo complice, ne più ne meno di quello che da tempo fanno le altre categorie della Cgil, della Cisl e della Uil.

Con la sostanziale differenza che chi pagherà il prezzo più alto per questo rientro sono esattamente i delegati e le delegate Fiom che in questi anni hanno lottato, resistito e creduto nel loro sindacato. Non abbiamo detto no a Marchionne perché mancava un posto a tavola, ma esattamente perché volevamo rovesciare quel tavolo imbandito a spese dei lavoratori. La nostra battaglia riparte da qui.

giovedì 15 gennaio 2015

Il saluto che CUBlog dedica al presidente emerito e senatore a vita Giorgio Napolitano

Al peggior presidente della storia repubblicana, noi di CUBlog offriamo il degno saluto di un suo grande, immenso e leggendario compaesano.


martedì 13 gennaio 2015

IL MASCHILISMO E LA CRISI ECONOMICA

Tutto ciò che mira a trasformare le differenze in disuguaglianze in modo che queste ultime siano utilizzate a beneficio di un gruppo su di un altro si chiama OPPRESSIONE, tra uomini e donne si parla di MASCHILISMO.
Il maschilismo si esprime in diverse forme: violenza (fisica, psicologica, verbale, sessuale), mercificazione del corpo umano, sfruttamento sui posti di lavoro, identificazione da parte della società della donna “come angelo del focolare” con la conseguente relegazione della donna in casa ad occuparsi della cura dei figli, degli anziani o dei disabili.
L'aumento del costo dei pasti nelle mense scolastiche, l'aumento delle rette dei nidi che diventano sempre meno accessibili alle famiglie, l'aumento della retta degli ospizi, tutto questo ha una ricaduta sulla figura femminile che si ritrova a dover sopperire personalmente ad un sistema statale che non è in grado di fornire servizi sociali.
Uno stato in crisi effettua sempre più tagli ai servizi sociali, ma anche alle associazioni che si occupano di violenza alle donne (come può essere nel territorio cremonese “AIDA”).
Insieme a questa situazione sociale le donne si trovano a dover affrontare lo sfruttamento sul posto di lavoro: a pari mansioni ricevono spesso salari inferiori dei colleghi uomini, “avances” fisiche, violenze verbali o psicologiche.

CONTRO QUESTA CONTINUA VIOLENZA CHE LE DONNE DEVONO SUBIRE QUOTIDIANAMENTE, VI INVITIAMO

VENERDI’ 23 GENNAIO ORE 20.30
PRESSO LA SEDE CGIL – VIA MANTOVA - CREMONA

ALLA PRESENTAZIONE PUBBLICA DI


Donne in Lotta


No Austerity

22 GENNAIO, MILANO - VERSO IL 12° ANNIVERSARIO DI DAX



Assemblea giovedì 22 gennaio ore 21:00 Villalta Rozzano via Carducci 1
Nell'avvicinarci al dodicesimo anniversario della Notte Nera di Milano, l'associazione Dax 16marzo2003 convoca un'assemblea aperta a collettività e soggettività che hanno a cuore la memoria di quella notte. Dopo il corteo antifascista e anticapitalista del decennale, la pubblicazione del libro "Resisto!" nel 2014, quest'anno ci troviamo di fronte a un nuovo passaggio che dev'essere condiviso e compiuto in maniera allargata. Un passaggio stimolato dalle riflessioni contenute nella lettera della Rosa che riportiamo a seguire. Le sue parole di madre impongono di ripesare il momento del ricordo che ha tradizionalmente caratterizzato la serata del 16 marzo. Parole che colpiscono nel profondo e che non leggiamo in senso restrittivo ma come stimolo a trovare forme nuove e magari più efficaci con cui onorare un compagno. Una storia, quella della Notte Nera, che deve appartenere alla città, all'interno di quel passaggio che abbiamo voluto avviare con il decennale. Per questo vi invitiamo a partecipare giovedì 22 gennaio or  21:00 Villalta Rozzano via Carducci 1

Associazione Dax 16marzo2003
Care compagne/i,
 anche quest' anno sta per arrivare il per me maledetto 16 marzo con tutta la carica di rabbia e dolore. Da 12 anni ormai abbiamo condiviso le giornate prima o appena dopo il 16 con tantissime iniziative per ricordare Dax, concentrando per la serata del 16 il presidio in via Brioschi con tutto ciò che sappiamo in fatto di interventi vari dal palco per poi muoverci in corteo verso via Gola. Ho sempre preso parte a tutto e ogni anno per me il corteo diventa più pesante in quanto mi carica di troppa tensione e fino a quando non so che tutti sono andati via sani e salvi mi sento quasi responsabile di ognuno di Voi per ciò che potrebbe succedere incrociando il commissariato di via Tabacchi sempre più ostile. Quindi ho fatto i miei ragionamenti che voglio condividere anche con Voi, risolviamo qualche cosa di positivo rischiando botte e denunce? non è meglio incanalare le nostre forze sui problemi che stavano tanto a cuore a Dax? Io penso che continuare a essere presenti e a lottare tutto l'anno con le sue bandiere contro gli sfratti sia cosa che poteva rendere felice Dax, essere presente con le sue bandiere di DAX Resiste quando si difende un posto di lavoro , o un territorio, o una lotta per la scuola pubblica, la sanità pubblica, acqua pubblica, giornate antifasciste e tante altre iniziative sia rendere onore a Dax. Poi penso che sia anche arrivato per me e la mia famiglia il tempo di vivere l'immenso dolore e rabbia come qualsiasi famiglia alla quale è stato tolto quanto di più caro avessimo (nostro figlio) e quindi per quella sera solo dolore, ricordo,. Non so se sono riuscita a mettere a nudo quello che provo (in tanti mi dicono be non sei obbligata a partecipare se non te la senti) ma non ci riesco a non essere con voi, io in quella stramaledetta via non ci vado mai a parte il 16 Marzo, a differenza di Haidi che in piazza Alimonda ci torna tutti giorni perché li vede Carlo lottare, io li non vedo Dax lottare ma solo morire, le sue lotte erano altrove. Grazie per essermi sempre vicini, grazie per aver portato avanti ciò in cui Dax credeva ognuno per quanto ha potuto e saputo far.
Un abbraccio immenso a tutte/ti
Rosa


sabato 10 gennaio 2015

LA BUONA SCUOLA RENZIANA... MA BUONA PER CHI?

Renzi promette 150 mila assunzioni (atto dovuto per migliaia di precari, di cui però non c'è
alcuna certezza né sulle modalità né sulla copertura economica), mentre in realtà si prepara ad
imporre un nuovo piano di tagli e la definitiva aziendalizzazione della scuola statale:
- Il blocco del turn over per il personale Ata con la perdita di circa 2000 posti di lavoro.
- La cancellazione della II e III fascia delle graduatorie di istituto con la conseguente condanna
alla disoccupazione per le migliaia di precari che lavorano dalle GI.
- Il blocco degli stipendi, ormai fermi al lontano 2007.
- L'eliminazione definitiva degli scatti d'anzianità per favorire un presunto e arbitrario
riconoscimento del merito aumentando la ricattabilità dei docenti da parte dei dirigenti che
assumeranno a tutti gli effetti il ruolo di manager dell'Azienda Scuola.
- La gerarchizzazione del corpo docente.
- Limitazione totale della libertà d’insegnamento, già in parte in atto nelle scuole professionali e
negli Iefp (dove le competenze vengono decise a livello regionale!).
- L'abolizione degli organi collegiali sostituiti da una sorta di consiglio d'amministrazione
presieduto dal dirigente scolastico.
- L'ingresso dei privati: le aziende saranno coinvolte nella didattica e godranno di incentivi
fiscali, mentre l'alternanza scuola-lavoro obbligatoria e ulteriormente potenziata renderà a tutti
gli effetti i nostri studenti mano d'opera gratuita ad uso e consumo dell'impresa di turno e li
priverà di preziose ore di studio basilari per la formazione di cittadini critici e consapevoli.
Fenomeno già evidente oggi ad esempio negli Iefp alberghiero e ricevimento dove gli studenti,
con la scusa di stage e alternanza, lavorano gratis per catering e eventi legati all’Expo.
- L'ulteriore taglio dei finanziamenti ai fondi d'istituto.
A tutto ciò si aggiunge il silenzio assordante sugli 8 miliardi di tagli subiti dalla scuola in questi
anni, che non vengono recuperati in alcun modo mentre aumentano i finanziamenti alle scuole
private e all'inutile e dannoso istituto Invalsi. Ciò significa continuare con le classi-pollaio, con la
riduzione delle ore di sostegno, con il taglio di ore di lezione, di materie, di laboratori, del tempo
scuola, delle scuole serali ormai ridotte di numero e snaturate ecc. Altro che buona scuola!!!
La propaganda governativa cerca di contrapporre e dividere i lavoratori della scuola, noi
rispondiamo uniti continuando la lotta in difesa della qualità della scuola statale, chiedendo:
- L’immediata assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari della
scuola senza condizioni capestro o ricatti.
- Il ritiro dei tagli Gelmini (8 miliardi!).
- Il ritiro dei tagli Giannini-Renzi (1 miliardo e 200 milioni).
- L’abrogazione della Riforma Fornero.
- Il ritiro della proposta di riforma “La buona scuola”.
PRESIDIO in DIFESA DELLA SCUOLA STATALE
14 GENNAIO ore 17,00
piazza Cairoli (davanti all'Expo Gate)
in sostegno al presidio permanente contro la “Buona scuola” che si terrà dal 13 al 18
gennaio a Roma davanti al Miur.
Coordinamento Lavoratori della Scuola “3ottobre”
https://www.facebook.com/groups/coordinamento3ottobre
coordinamento3ottobre@gmail.com

giovedì 8 gennaio 2015

DA IL GIORNALE IL MANIFESTO : LAVORO Fiat minaccia chi si ammala: «Rischiate il licenziamento»

Di Massimo Franchi
Jobs act. Alla Sevel di Atessa gli operai pedinati
Il Jobs act non è ancora legge, ma la Fiat — par­don, la Fca Italy — mette le mani avanti. Minac­ciando di licen­zia­mento chi fa troppi giorni di malat­tia. Lo fa nella sua fab­brica più grande — 6.600 ope­rai — e meno col­pita dalla crisi, quella Sevel di Atessa (Chieti) dove si è con­ti­nuato a pro­durre il camion Ducato anche quando tutte le altre fab­bri­che ita­liane erano chiuse. Facendo capire in modo assai chiaro di essere pronta ad usare le nuove norme sui licen­zia­menti per sba­raz­zarsi di chi è poco produttivo.
Lo fa con una let­tera reca­pi­tata ad ini­zio anno una ven­tina di dipen­denti che nel 2014 hanno col­le­zio­nato un numero di assenze per malat­tia troppo alto per i cri­teri di Mar­chionne. Nella let­tera della Sevel inviata ai lavo­ra­tori inte­res­sati si legge che «pur non con­te­stando la vali­dità di tali cer­ti­fi­ca­zioni, né la piena legit­ti­mità, alla luce delle vigenti dispo­si­zioni di legge, di tali assenze, rite­niamo tut­ta­via utile segna­larle come que­sta situa­zione non può non avere rile­vanti riflessi sulla con­ti­nuità della sua pre­sta­zione lavo­ra­tiva. Dob­biamo altresì aggiun­gere – si legge ancora — che, per­du­rando una discon­ti­nuità nella pre­sta­zione lavo­ra­tiva quale quella evi­den­ziata, l’azienda si riserva ulte­riori e più appro­fon­dite valu­ta­zioni e deci­sioni in merito alla pro­se­cu­zione del suo rap­porto di lavoro con la nostra società».
In Sevel la Fiat da anni porta avanti una bat­ta­glia con­tro — un sup­po­sto — assen­tei­smo. Una guerra in cui non ha lesi­nato alcun stru­mento. Arri­vando addi­rit­tura ad assol­dare inve­sti­ga­tori pri­vati per pedi­nare tutti i lavo­ra­tori che usu­frui­scono della legge 104, quella che per­mette ai fami­liari di per­sone con gravi disa­bi­lità di assen­tarsi dal lavoro per poterli assi­stere. L’aver tro­vato alcuni lavo­ra­tori che nelle gior­nate di 104 non sta­vano accu­dendo i loro cari ha por­tato ad almeno 4 licen­zia­menti. In più lo scorso 6 set­tem­bre la Cas­sa­zione ha defi­ni­ti­va­mente con­fer­mato un licen­zia­mento per assen­tei­smo giu­sti­fi­cato. L’azienda a quel punto aveva gon­fiato il petto — e forte anche delle aspet­ta­tive del Jobs act — ha copiato parti intere della sen­tenza nella let­tera inviata ai dipen­denti a rischio per troppe assenze. Ma allo stesso tempo la Fiat Sevel ha dovuto subire una dop­pia scon­fitta: due fra­telli licen­ziati per assen­tei­smo e seguiti dall’Usb sono stati rein­te­grati dal giu­dice del lavoro.
La let­tera ha por­tato ad una rea­zione sin­da­cale forte. In un comu­ni­cato si legge «La let­tera della Sevel è una vera e pro­pria inti­mi­da­zione, per­ché in que­sto caso non ven­gono con­te­stati false malat­tie, ma si sostiene che non ci si può amma­lare più di tanto, altri­menti si può essere cac­ciati». Più arti­co­lati i giu­dizi delle varie sigle. Per la Fim Cisl «la let­tera non è una novità, da dieci anni la Sevel copia il cosid­detto “modello Miche­lin” comu­ni­cando a chi fa più malat­tie che è a rischio — spiega il respon­sa­bile auto Fer­di­nando Uliano -. Cer­ta­mente la let­tera vuole incu­tere paura nei lavo­ra­tori, ma non ha nes­suna valenza giu­ri­dica e con­trat­tuale e fa rife­ri­mento ai cer­ti­fi­cati medici». Per la Fim Cisl quindi non ci sono peri­coli reali per i lavo­ra­tori «in buona fede»: «Non biso­gna creare un clima di ter­rore. Se l’azienda pro­ce­desse al licen­zia­mento di que­sti lavo­ra­tori noi riu­sci­remmo a dimo­strare che sia un licen­zia­mento discri­mi­na­to­rio», chiude Uliano.

Di parere ben diverso la Fiom Cgil. «Con il Jobs act ven­gono meno gli ele­menti che hanno impe­dito alla Fiat di licen­ziare mol­tis­simi ope­rai in que­sti anni: baste­rebbe masche­rarli per licen­zia­menti eco­no­mici o disci­pli­nari», attacca Davide Lab­brozzi, segre­ta­rio pro­vin­ciale di Chieti. Per la Fiom poi l’assenteismo denun­ciato dalla Sevel «è in linea con gli altri sta­bi­li­menti Fiat e con le fab­bri­che del ter­ri­to­rio. La Fiat nel frat­tempo ha impo­sto la satu­ra­zione delle linee e ha tolto posta­zioni in linea». Anche per que­ste ragioni la Fiom ha pro­prio ieri pro­cla­mato lo scio­pero con­tro i 3 giorni di straor­di­na­rio — due sabati e una dome­nica notte — pre­vi­sti a gen­naio. «Qua ad Atessa pro­du­ciamo lo stesso numero di camion degli anni scorsi ma siamo mille in meno. Vogliamo aprire un tavolo azien­dale per nuove assun­zioni — di mille pre­cari ne sono stati sta­bi­liz­zati 50 — e un’analisi dei cari­chi di lavoro», con­clude Labbrozzi.

martedì 6 gennaio 2015

CIAO PINO!

In ricordo a uno dei più grandi musicisti italiani...




Expo, l'assalto ai cantieri della mafia imprenditrice: "Scoperte infiltrazioni in una azienda su otto"

Dalle targhe clonate per mascherare i subappalti illegali ai legami familiari con i boss: i documenti riservati della prefettura di Milano mostrano come i clan abbiano preso il controllo anche di ditte apparentemente "pulite"


di PIERO COLAPRICO (  Repubblica.it )

MILANO -  Te lo confidano a mezza voce i penalisti: "Ci sono aziende che ormai non possono più lavorare perché uno dei soci è pregiudicato, e ci chiamano per un consiglio, ma che possiamo fare?". Lo sussurrano informalmente i poliziotti: "I mafiosi qui hanno finito di scherzare e sentirsi impuniti, li possiamo toccare sui soldi, come insegnava Giovanni Falcone". Chi ufficialmente potrebbe parlare, tace in pubblico. Ma il dato di fatto è certo. È cominciata nei territori del Nord una guerra dura e silenziosa alla mafia imprenditrice, alla "zona grigia". E l'Expo di Milano è la trincea più avanzata.
Repubblica ha potuto osservare alcuni documenti riservati. Ne ha tratto cinque episodi, sufficienti a raccontare un "sistema". Un'impresa di costruzioni era entrata nella White List delle aziende affidabili per i cantieri Expo e poteva stare tranquilla. Invece è finita "out": mandava sul cantiere della Tangenziale est esterna auto, camion e ruspe con le targhe clonate. Cioè affidava ad altri imprenditori, molto meno "puliti", gli importanti lavori che aveva ottenuyo. E per evitare i controlli, aveva ideato la "furbata": mettere le proprie targhe, autorizzate, su mezzi non autorizzati, e guidati da dipendenti di aziende che erano state in qualche caso già cacciate dai cantieri. Via tutti, dunque, senza possibilità di rientrare.
Un'altra impresa gode - è facile "apparecchiare" le carte - della liberatoria antimafia. Ma s'indaga lo stesso: una delle titolari è sposata con un detenuto, esperto nel traffico internazionale di stupefacenti. Il capitale sociale serve, viene accertato, "alle spese legali e al sostentamento dei familiari", e questo motivo basta e avanza per sbattere fuori dai cantieri quest'azienda. E anche la terza azienda appare a prima vista specchiata, ma ha assunto - attenzione: i detective solitamente sono scettici riguardo alle coincidenze - esclusivamente operai che arrivano da un piccolo paese del crotonese. È una forma di campanilismo oppure c'è altro? E chi sono questi lavoratori? Vengono censiti e "radiografati": o sono uomini con precedenti penali,oppure risultano legati (si legge) "a cosche di grande spessore criminale". Tra i "paesani", infatti, c'è chi si occupa di prostituzione, chi viene trovato con armi e, un giorno, sul cantiere appare, nonostante non c'entri nulla, un pregiudicato condannato per il 416 bis, l'associazione mafiosa. Via dall'Expo e dintorni anche questa ditta.
La quarta azienda è a conduzione familiare, ha contratti sia con la metropolitana di Milano che con la tangenziale. Attende il sì per entrare nella White List ed è tutto all'insegna del "no problem", finché l'amministratore unico "viene trovato in possesso di due pistole con matricola abrasa e un numero consistente di cartucce". Emerge una parentela: questo "amministratore calibro 9", sino ad allora incensurato, è nato nella stessa famiglia di un capomafia "strettamente collegato - così nel documento riservato - ai vertici di Cosa Nostra". Via anche questa. E anche la quinta impresa è a conduzione familiare: viene gestita da due giovani fratelli, immacolati, mai un guaio con la legge. Si occupano del "movimento terra". Sono anche e costano poco. Purtroppo per i due, è il papà che fa squillare il campanello d'allarme. Ha un fascicolo penale alto come un vocabolario e frequenta moltissimi pregiudicati. Le colpe dei padri ricadono dunque sui figli - e tra poco spiegheremo perché a Milano sta passando questo principio che può far discutere - e vanno cacciati. Questo è l'ordine della prefettura, la chiamano in burocratese "interdittiva".
Contro questa mano pesante dello Stato, alcune imprese sono scese in campo e hanno combattuto i divieti con l'arma della legalità. Hanno fatto ricorso al Tar, ma hanno perso. Consiglio di Stato, tappa successiva: hanno perso anche lì. Dunque, siamo di fronte ad un assoluto inedito: che cosa sta succedendo a Milano? Che cosa costringe il resto dell'Italia dell'antimafia seria a guardare con grandissima attenzione quello che succede intorno a Expo?
Un rapido passo indietro. L'Italia aveva dichiarato al mondo che l'Expo sarà un evento "mafia free". Su questo slogan hanno convinto alcuni scettici, tra i quali gli americani. Ma lo slogan "mafia-free" è la sintesi di un concetto che appare come una rivoluzione copernicana della lotta alla mafia imprenditrice. Lo possiamo riassumere così: "Se "appalti pubblici" vuol dire (anche) soldi pubblici che dallo Stato vanno alle aziende, spetta o no allo Stato impedire che i "suoi" denari possano entrare nelle casse di imprese che non convincono?".

La prefettura di corso Monforte è diventata una specie di avamposto avanzato della nuova guerra. Non dichiarata mai apertamente, mai ufficialmente. Ma in corso. Sono state infatti emesse 68 "interdittive", che proibiscono di partecipare ai lavori. I divieti riguardano 48 imprese sulle 367 che sono state controllate: vuol dire che il 13 %, più di una su 8, non supera l'esame.
"Se un privato accetta queste aziende, sono affari del privato, ma lo Stato vuole che i suoi cantieri siano cantieri senza criminali. E noi - dicono dalla prefettura - non abbiamo bisogno delle certezze che ci sono nel diritto penale per stabilire che un'azienda sia permeabile dalle organizzazioni criminali. Cioè, possiamo fare a meno degli elementi indiziari che possono portare in carcere, ma non per questo abbiamo meno scrupoli. Seguiamo alcuni "indicatori" e in questo modo impediamo ai soldi pubblici di finire in mani non corrette". Ed è così che "Ci sono state più interdittive a Milano che sulla Salerno-Reggio Calabria", ha detto Raffaele Cantone, presidente dell'Autority anticorruzione.
Funziona a Milano una sorta di gruppo misto - composto da antimafia e Asl, ispettorato del lavoro, vigili e funzionari della prefettura - che sta mettendo in ginocchio i "manager squali". Questa pattuglia interforze va sui cantieri, ma dietro le quinte lavorano altri due gruppi più specializzati, il Gia (gruppo antimafia) e il Gicex (Gruppo Interforze Centrale per l'Expo 2015). Appena si accende un allarme rosso - e può essere un allarme "banale": mancato rispetto delle norme sulla sicurezza del cantiere, presenza di personale non identificato e autorizzato, garbugli amministrativi, uso disinvolto del badge - l'azienda viene "attenzionata" dal gruppo misto e passata al setaccio dai detective, che possono incrociare le varie banche dati, da quelle del ministero dell'Interno a quelle "bancarie".
Un lavoro certosino: sino alle vacanze di Natale escluse, sono stati controllati 1.436 tra auto, carri, e ruspe, 3.099 persone, 367 società. C'è stata un'evoluzione continua dei controlli: nel 2009 c'erano stati due accessi nei cantieri, tre nel 2010, sette nel 2011, sedici nel 2012, che diventano 18 l'anno dopo, ma nell'anno 2014, quando il prefetto Francesco Paolo Tronca è ormai convinto dell'efficacia della "procedura alla milanese" diventano 54: "Le forze attive, liberate dal la- voro burocratico che si è accollata la prefettura - hanno raccontato dalla prefettura milanese lo scorso maggio alla commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi - eseguono cinque accessi al mese sui cantieri, che consentono di controllare plurime aziende (...). Coloro che adesso fanno cinque controlli al mese, prima stavano alla scrivania, oggi stanno nel fango del cantiere".
È questo cambiamento "amministrativo" nel metodo di contrasto ai clan e ai loro affari a segnare una svolta concreta. Le voci "milanesi" stanno circolando tra varie prefetture e gli apparati dello Stato. Questo metodo, viene detto, può estendersi ovunque, si può azzerare ("legalmente, facilmente") la possibilità delle aziende grigie di avvicinarsi al "piatto ricco" degli appalti pubblici.
Siamo agli inizi, dunque, di nuovi metodi di contrasto alle mafie: di una questione che da Milano può rapidamente scendere lungo la penisola, per arrivare alle regioni al alta densità mafiosa passando dalle nuove emergenze di Mafia Capitale. E un altro di questi "sistemi" è stato potenziato dalla procura milanese.
Qui, è noto, l'antimafia ha condotto varie inchieste che hanno portato in carcere circa 400 persone legate ai clan calabresi e prodotto documenti impressionanti, che hanno fatto il giro del mondo. Come la votazione per alzata di mano del capo-rappresentante di tutti i "locali" (cosche) in Lombardia. O come il giuramento di affiliazione alla 'ndrangheta nel nome di Mazzini, La Marmora e Garibaldi. Ma accanto ai blitz, è stata avviata una strategia mirata a colpire il professionista che sa di lavorare per i mafiosi, ma finge di non saperlo, di non essersene accorto. Il commercialista che prestava lo studio per le riunioni d'affari (inchiesta Valle), l'ufficiale dei carabinieri carico di encomi che in pensione aveva aperto l'agenzia privata d'investigazioni e security (caso Tnt), il prestanome degli usurai, l'addetto alla dogana: tutti questi (e altri) non erano imputabili, ma sono stati dichiarati "sorvegliati speciali". Cioè hanno avuto il divieto di uscire prima delle 7 del mattino e di non rincasare dopo le 21, non possono avere armi e non devono "frequentare pregiudicati".
Una sanzione, ma anche un'umiliazione: come spiegare nella cerchia di amici come mai non si va più a cena fuori? La richiesta delle misure di prevenzione è costante e la strategia ha un'altra appendice, che riguarda le banche. Alcuni direttori sapevano di trattare con i mafiosi? Sì, allora gli istituti di credito sono stati sospesi nei rapporti con questi clienti, al posto del direttore colluso è arrivato un curatore: è successo già tre volte.Ilda Boccasini, procuratore aggiunto antimafia, con a fianco il procuratore capo Bruti Liberati, dice: "O si sta con la mafia o si sta con lo Stato". In Italia, a cominciare da Milano, sembra che le sfumature di grigio sporco non siano più di moda.

domenica 4 gennaio 2015

SEMPRE DAL SITO CONTROPIANO .ORG La versione del vigile. Domenica 04 Gennaio 2015


chi le scrive è uno dei circa 6000 agenti di Polizia municipale di Roma, non sindacalista. La ringrazio se attraverso il suo blog è possibile far sapere qualcosa di più su quanto avviene e avvenuto a Roma.
Il contesto.
È in atto a Roma un braccio di ferro tra il Comune e i propri 24.000 dipendenti. Oggetto della vertenza, il nuovo contratto decentrato che il Comune ha voluto imporre e che porterà tra le tante cose a perdite medie sugli stipendi comprese tra i 100-200 e i 400-500 euro. Parliamo di stipendi mediamente da 1200-1600 euro.
Questa rivoluzione contrattuale è stata ispirata alla legge Brunetta del 2009, che prima era rimasta inapplicata.Le proteste dei dipendenti, tra cui il primo sciopero unitario della loro storia, ne hanno solo rallentato l’iter ma alla fine il piano è partito. A dicembre il livello dello scontro sui tavoli sindacali è diventato durissimo, ed è stato vissuto con trepidazione sui posti di lavoro: il Comune vuole, in sintesi, modificare le norme contrattuali in modo da imporre maggior flessibilità e disponibilità oraria, pagandola però molto meno. La controproposta dei sindacati, per una volta tutti uniti tra loro, è rimasta del tutto inascoltata. Sui posti di lavoro l’assenza di una reale trattativa ha generato un crescente malcontento.
I vigili.
Per portare a termine il suo fine ultimo, il Comune ha dovuto prendere saldamente in pugno la situazione soprattutto per quel che concerne i vigili, il contingente più numeroso e significativo (anche economicamente, sia in entrata che in uscita) tra i suoi dipendenti. La nostra battaglia è diventata il vero fulcro di tutta la questione contrattuale romana, che è poi in realtà nazionale (si noti a tal proposito i continui interventi di Renzi e della Madia).
Marino ha tra l’altro imposto il controllo politico totale del Corpo portando da subito alle dimissioni l’ex comandante Buttarelli, esponente interno della Polizia Municipale, per sostituirlo con il carabiniere Liporace (candidatura poi saltata per
assenza dei requisiti) ed infine con l’ex Polizia di Stato Raffaele Clemente, che costa circa 170 mila euro.
La Polizia Locale a Roma dovrebbe avere 9.400 dipendenti e siamo meno di 6000. E alle proposte di diminuire gli stipendi sono state affiancate l’eliminazione delle indennità di disagio notturno e festivo; dunque lavorare di più e peggio per guadagnare meno.
Capodanno.
Nessuno ha sufficientemente spiegato come funziona normalmente il servizio di Capodanno per la Polizia Locale: necessitano infatti circa 700 unità, che di solito vengono reperite in forma esclusivamente straordinaria (comunque ben pagata, tant’è che mai simili problemi si erano verificati).
Il recente innalzarsi dei toni sui tavoli sindacali ha avuto come risultato da parte dei sindacati la decisione, quest’anno, di non iscriversi agli straordinari nel periodo compreso tra il 20 dicembre e il 15 gennaio: così quasi nessun vigile ha dato la propria disponibilità a lavorare in quel periodo al di fuori dei propri turni ordinari, con conseguente rinuncia ad una buona remunerazione aggiuntiva.È un risultato del tutto nuovo: mai in passato i sindacati sono stati così uniti, e mai una forma di protesta di questo tipo (che incidesse cioè sul salario del dipendente, come la rinuncia ai turni straordinari) ha avuto adesioni così massicce.Ad ogni modo, non garantire del lavoro straordinario è un diritto garantito da tutti i contratti collettivi.
In questa tesissima partita a scacchi è parso fin da subito evidente che fulcro decisivo sarebbe stato rappresentato dalla notte di Capodanno, in quanto reperire il numero di vigili necessario a garantire gli eventi organizzati dal Comune sarebbe stato impossibile in assenza del lavoro straordinario, date le carenze d’organico del Corpo.La contromossa del Comune/Comando al rifiuto degli straordinari è stata su due binari: per via mediatica (cercando di far ricadere sull’irresponsabilità degli addetti al Corpo un eventuale disorganizzazione in qualche evento festivo), con articoli su tutta la stampa locale e nazionale, dai toni duri e talvolta apocalittici; e sui posti di lavoro, sabotando la corretta informazione sull’organizzazione dei servizi e facendo terrorismo psicologico sull’ipotetico utilizzo/abuso di chi fosse stato in servizio nei giorni clou.I sindacati hanno tentato di scardinare tale meccanismo indicendo un’assemblea per il giorno 31 dicembre, con orario 21.00/03.00 e sperando in un’adesione massiccia: l’intento, palese, era di mettere in luce in una
delle situazioni logisticamente più delicate per la città quanto i vigili fossero necessari al Comune, al contrario di quanto dimostrato dall’ente in sede di trattativa. Era una minaccia, forse un bluff, per costringere il Comune a recedere per primo almeno in parte dalle proprie posizioni.
Gli ultimi giorni di dicembre hanno visto così procedere senza sosta due treni messi l’uno di fronte all’altro sul medesimo binario: sui posti di lavoro era dura comprendere chi avrebbe frenato prima, e se qualcuno lo avrebbe poi realmente fatto o se si sarebbe realmente arrivati al violento scontro frontale.Il Comando, anziché fare mezzo passo indietro, ha lavorato coi propri giuristi per rintracciare ogni limite contrattuale e di legge e obbligarci a fare in ordinario ciò che in straordinario non sarebbe stato coperto. Sono arrivate diffide dalla Prefettura (con forti richiami all’ordine pubblico da garantire); una lettera della commissione di Garanzia per gli scioperi, stimolata dal Comune; e altri interventi intimidatori per farci fare lo straordinario, sebbene questa non sia una prestazione dovuta.Così alla fine i sindacati hanno rinunciato all’assemblea, anche in seguito a una minacciosa circolare del Comando in cui, citando le porzioni di legge a proprio favore, se ne chiedeva uno spostamento e si minacciavano sanzioni disciplinari pesanti a chi vi avesse aderito: sebbene legalmente non fosse chiaro quanto e se fosse davvero nel giusto, i sindacati hanno deciso di non fare l’assemblea, insomma hanno “frenato per primi”.A quel punto, senza assemblea, i vigili sono rimasti fermi a capire come il Comune volesse comunque organizzare le cose, a Capodanno, viste le scarsissime adesioni allo straordinario.
La risposta è stata questa: oltre il 50 per cento di chi era di turno il giorno 31 o il giorno 1, anche se come propria turnazione era previsto di mattina o di pomeriggio (e in base a questo avesse organizzato la propria esistenza), si è ritrovato improvvisamente spostato in orario 17-24, 18-01 o 23-06. Un abuso? Probabilmente sì, specie perché accompagnato da telefonate intimidatorie al personale poche ore prima (del tipo: “Se non ti presenti sarai punito disciplinarmente, anche i malati saranno denunciati” ecc).
Il risultato è stato che, in maniera del tutto spontanea e slegata da qualsiasi proposta sindacale, molti vigili hanno iniziato per conto proprio a studiare il proprio contratto e hanno scoperto di aver diritto da contratto, per esempio, a donare sangue in un giorno di lavoro o ad assistere il proprio parente infermo o a effettuare
una visita medica: tutti istituti contrattuali regolari, previsti, ovviamente da esercitarsi con giustificativo a norma di legge.
Dunque, quale che sia la motivazione con cui questi diritti sono stati usufruiti (fosse anche vero l’intento di voler smascherare il Re Nudo), essi rappresentano un legale esercizio delle proprie facoltà, proprio quelle norme opposte impugnate a proprio favore dal Comando sulla base del medesimo dettato contrattuale per impedire l’assemblea e per spostare i turni.
E i malati? Ammalarsi falsamente, è chiaro, è invece reato (reato anche per il medico che scrive il falso, s’intende); dunque chi ha fatto esercizio di un simile pretesto per non andare a lavorare lo ha fatto non usufruendo di un proprio diritto ma “delinquendo”.Aggiungo tuttavia che la maggior parte dei malati ha ricevuto regolare visita del medico fiscale.E, soprattutto, veniamo ora ai numeri reali, quelli non detti dal Comune.I vigili a Roma sono circa 6000, di questi la stragrande maggioranza (oltre 4000, forse quasi 5000) erano già assenti il 31 dicembre perché in precedenza regolarmente autorizzati (si fa perlopiù riferimento ai piani ferie e riposi che ogni dirigente vaglia, modifica e sottoscrive come in ogni posto di lavoro); io stesso ero in ferie e dunque assente giustificato.
Dei circa 1000 e spiccioli rimanenti, con cui il Comune/Comando sperava di fare “le nozze coi fichi secchi”, circa 800 erano gli assenti per altre ragioni al di fuori dalle ferie di cui sopra: il dato del cosiddetto «83% di assenteismo» deriva quindi da questo calcolo.
Di questi 800 circa, i dati circolati parlano di meno della metà di malati (tutti gli altri hanno usufruito di diritti contrattuali di altra natura), e più d’uno da ben prima che il 31 dicembre venisse imposto il “servizio coatto” in centro: il numero degli ipotetici fannulloni quindi scende in modo vertiginoso. Tra l’altro, se invece di limitarsi al dato del 31 dicembre ci si sposta a verificare il lavoro del primo gennaio, si scopre che degli oltre 300 previsti a lavorare nella fascia oraria fino alle 6 di mattina solo 115 sono venuti a mancare per le ragioni già spiegate (siamo intorno al 30-35% del totale, e circa la metà significa una cifra tra il 10 e il 20% di malati, cifra in linea con la stagione e con la situazione meteorologica cui sono stati costretti gli agenti a fine dicembre).Un ultimo dato significativo a cui è stato dato pochissimo risalto: il ricorso all’istituto della reperibilità dal Comando per coprire i servizi del 31 dicembre.Si tratta di un istituto per cui i dipendenti, suddivisi in squadre lavorative, devono farsi eventualmente trovare pronti ad intervenire quanto prima in caso di estrema necessità. Il dipendente riceve un’indennità a tal proposito, e viene poi pagato (ad ore, diciamo con le stesse modalità dello straordinario) nel caso in cui venga chiamato effettivamente a prestare servizio. E’ un istituto da usarsi solo per estreme emergenze, molto costoso una volta attivato per il Comune, e utilizzato in tempi recenti solo per una delle nevicate romane degli ultimi anni con Alemanno (ma non, per esempio, per l’alluvione del 31 gennaio 2014). E’ corretto averne fatto uso per un evento ampiamente programmabile e meglio gestibile, non di certo una calamità, come un concerto in piazza? O è stato costosamente utilizzato per far fronte alla disorganizzazione per cui si era fatto affidamento su lavoro non dovuto dei dipendenti, si erano sbagliati i piani ferie, il personale è sotto organico ecc?
Comico, poi, il fatto che siano stati erroneamente contattati anche dipendenti in pensione, trasferiti in altro Comune o addirittura deceduti: si è perso tempo che sarebbe stato prezioso nel caso di un’emergenza vera a causa di elenchi mal aggiornati, responsabilità imputabile a chi dirige il Corpo.

Cordiali saluti.

A 10 anni dal disastro ferroviario di Crevalcore: appello alla partecipazione!

Il 7 gennaio 2015 sono trascorsi 10 anni da Crevalcore, quando, poco dopo le ore 12.00, un treno di pendolari si scontra con un treno merci carico di putrelle di acciaio: muoiono 17 persone, oltre 20 i feriti. Perdono la vita anche 3 macchinisti, il capotreno e altri due ferrovieri.
Oggi, da Viareggio facciamo l'appello ad esserci, ad una forte partecipazione, con una proposta di comunicato comune, che invieremo entro breve.
Stiamo informandoci sulle iniziative previste, anche quelle ufficiali, per dire la nostra con la presenza ed il comunicato. 
L’appello nasce da Viareggio, poiché le due sentenze-vergogna (quella del 17 luglio scorso del presidente del Tribunale della Corte di Appello di Firenze, Giovanni Bronzini coadiuvato dai giudici Gaetano Schiavone e Simonetta Liscio, e quella del 4 giugno 2013 del giudice di Lucca, Luigi Nannipieri) che hanno confermato il licenziamento di Riccardo Antonini, ci hanno visti successivamente mobilitati con 2 partecipati presidi davanti ai Tribunali di Firenze e di Lucca, e un ulteriore volantinaggio pochi giorni fa ancora al Tribunale di Firenze: questi interventi dimostrano e affermano che non accettiamo la sentenza contro Riccardo, ci hanno ancora più convinto che non dobbiamo fermarci di fronte alle tante "loro" sentenze di parte; sentenze dalla parte di chi detiene il potere.  Un insegnamento della realtà che si deve quindi estendere. I tempi sono cambiati in peggio per i senza-potere nel senso che sempre più sono le sentenze contro di loro ed allora i tempi debbono cambiare anche per i poteri forti, impuniti ed assolti da giudici senza scrupoli: per questo siamo costretti a non mollare attraverso la denuncia e la mobilitazione. 

Perché Crevalcore? Perché la sentenza per il disastro ferroviario di Crevalcore, emessa a maggio 2009, un mese prima della strage ferroviaria di Viareggio del 29 giugno, rappresenta, per i suoi contenuti, l'icona delle sentenze-vergogna, che assolve gli imputati "per non aver commesso il fatto" e attribuisce ogni responsabilità al macchinista morto Vincenzo Di Biase.
Questo 10° anniversario è un appuntamento da non perdere, visto le sentenze susseguitesi nell'ultimo periodo (l'elenco è per difetto): 
- la sentenza Thyssen krupp, dell'aprile scorso, con cui è stata annullata la sentenza della Corte di Appello di Torino (che aveva ridotto le pene derubricando l'omicidio da doloso a colposo): il nuovo processo deve rideterminare, ovviamente al ribasso, le pene degli imputati;
- la sentenza di 2° grado de L’Aquila che assolve i membri della Commissione grandi rischi che una settimana prima del terremoto che provocò 309 vittime, aveva rassicurato la popolazione che non vi era alcun pericolo …
- la sentenza Eternit del 19 novembre, con l'assoluzione definitiva per prescrizione del reato di disastro ambientale del miliardario Stephan Schmidheiny, imputato di oltre 3000 morti da amianto. Annullati anche i risarcimenti per le parti civili;
- la sentenza Marlane: a dicembre, il Tribunale di Paola assolve i 12 imputati responsabili della morte di 107 operai della Marlane di Praia a Mare, compreso il presidente Marzotto;
- sempre il Tribunale di Paola, a dicembre, ha assolti tutti gli imputati nel processo per la megadiscarica di Bussi che ha avvelenato 700.000 persone, reato prescritto perché derubricato da doloso a colposo.

Il 10° anniversario di Crevalcore è un appuntamento che non possiamo perdere per affermare: che non possiamo accettare e respingiamo sentenze contrarie alla salute e alla sicurezza che danno mano libera a padroni e manager a continuare nella loro politica di morte; che compete a noi assumere in prima persona la grande questione della sicurezza e dell’ambiente, che dobbiamo organizzarci e mobilitarci perché la tutela della vita dei lavoratori e dei cittadini, non può essere delegata alla magistratura e a magistrati che, deliberatamente, hanno deciso di stare dalla parte dei potenti.
L’appello è rivolto agli organismi di lotta, ai ferrovieri, a delegati e lavoratori, alle realtà organizzate che, in questi anni, hanno dimostrato coscienza, sensibilità, denuncia e mobilitazione su temi fondamentali come la sicurezza, la salute, l’ambiente.

Vigili urbani a Roma: un caso creato per stroncare tutto il lavoro pubblico. Articolo del sito : CONTROPIANO.ORG


Prima la notizia: la notte di S. Silvestro, a Roma, l'83,5% dei vigili urbani si è dato malato o comunque si è assentato dal lavoro utilizzando altri tipi di permesso (dalla legge 104 alla donazione di sangue).
Come conseguenza, grande scandalo, governanti di ogni livello e media di regime scatenati contro i "fannulloni del pubblico impiego"  - tutti insieme, nessuno escluso, come si fa nei pogrom - e richiesta generalizzata di bastonare i reprobi (il pubblico impiego in generale). Il premier Matteo Renzi cavalca l'onda con facilità, annunciando che il 2015 sarà l'anno del "cambio di regole nel pubblico impiego" per far sì che non si ripetano mai più casi come quello della Capitale.
Il ministro del settore,  Marianna Madia, cala per una volta la maschera di madonnina e tira fuori artigli, ventilando  "azioni disciplinari" per "colpire gli irresponsabili". Il Garante per gli Scioperi - quell'autorità creata quasi venti anni fa con l'unico obiettivo di impedire o rendere comunque irrilevanti gli scioperi nei servizi pubblici (tra precettazioni, "servizi garantiti", sanzioni e "affollamenti") - ha prospettato sanzioni "fino a 50 mila euro". E subito emergono le proposte per rendere "più facile il licenziamento degli statali", il trasferimento all'Inps (invece che alle Asl) dell'incarico di eseguire i controlli medici sui periodi di malattia, "commissioni ad hoc" per la valutazione del "rendimento" dei singoli dipendenti pubblici, la riesumazione delle "norme Brunetta" e via reprimendo in via preventiva...
Il Campidoglio, sotto botta dopo lo scandalo "der cecato" & co., prova a tenere il passo incaricando il vicecomandante dei vigili di condurre un'indagine interna per capire cosa sia successo il 31 dicembre. Al termine della quale la Procura di Roma  (ieri il comandante dei vigili, Clemente, ha incontrato il procuratore aggiunto Maria Monteleone) potrebbe intraprendere "eventuali procedimenti penali".
Dal canto loro, i vigili della Capitale difendono a spada tratta le proprie ragioni e si preparano al primo sciopero della categoria nella storia di Roma, anche se la triplice Cgil-Cisl-Uil stigmatizza i disagi sottolineando di non aver "in nessun modo dato indicazioni ai lavoratori difformi da quanto previsto dalle norme, contratti e regolamenti".
"Non siamo né fannulloni, né ladri", sottolineano gli agenti, spiegando di non aver fatto lo straordinario "per protesta". E qui esce fuori una prima ragione comprensibile per una astensione dal lavoro altrimenti inspiegabile e per nulla spiegata dai giornali. di regime: l'amministrazione comunale e il comandante avevano infatti disposto uno "straordinario obbligatorio" la notte di capodanno per garantire lo svolgimento del concerto al Circo Massimo.
Una "provocazione" giunta alla fine di un anno in cui i rapporti tra il comandante e gli uomini da lui amministrati sono arrivati ai minimi termini. Ne avevamo anche noi dato in qualche modo notizia, all'interno degli articoli dedicati all'inchiesta giudiziaria su Mafia Capitale, segnalando come fosse quantomeno curioso che il comando dei vigili urbani romani stesse eseguendo le indicazioni date da un "commissario alla trasparenza" - Walter Politano -  indagato per associazione mafiosa dalla Procura di Roma insieme a Carminati, Buzzi, Mancini e compagnia cantando. Ora la situazione è apparentemente "migliorata" con la nomina nella stessa carica di Rodolfo Sabella, magistrato, su cui però i giuristi democratici hanno sollevato "perplessità" - diciamo così - di una certa rilevanza politica.
Sta di fatto che decine di assemblee dei "pizzardoni" hanno posto il problema di entrare in sciopero - cosa mai avvenuta nella storia - per rispondere in qualche modo a un'offensiva dall'alto che accomuna tutti sotto un'accusa infamante. Il provvedimento più intollerabile, tra i tanti partoriti dalle fervide menti ai vertici, riguarda il trasferimento di sede per contrastare la corruzione. Per chi conosce Roma, non c'è minaccia maggiore possibile, qualunque sia il lavoro che fai. Si tratta inoltre di un provvedimento completamente inutile rispetto allo scopo per cui viene ufficialmente preso. Un "vigile corrotto", infatti, una volta cambiato il gruppo circoscrizionale, riprenderà in breve tempo la sua "seconda attività", perché dovrà soltanto cominciare a conoscere i suoi nuovi "clienti" giovandosi della competenza accumulata in altra zona.
Al contrario, ci spiegavano alcuni vigili (incazzatissimi per una misura che li sospettava tutti, nessuno escluso, come si fa nei pogrom, di essere "corrotti"), un trasferimento di funzione e non territoriale avrebbe tagliato le gambe molto più efficacemente alla corruzione perché i responsabili avrebbero dovuto imparare un mestiere differente (regolato da decine di codici differenti). Insomma: se prendi un vigile "esperto" nel trattare con i commercianti e lo rimetti alla viabilità, e viceversa, per qualche anno puoi star tranquillo che non ci saranno episodi gravi di corruzione.
Pur restando all'interno dello stesso territorio. Quel che ha fatto imbizzarrire una categoria decisamente poco disponibile al conflitto è infatti il trasferimento ad altra sede. Per tutti - "corrotti" e no - esiste infatti il problema del "viaggio" da casa al lavoro, che a Roma, in casi limite, può arrivare alle due ore. Insomma, seguendo le indicazioni di un "assessore corrotto" indagato per questa ragione - vedremo come andrà poi il processo - tutti i vigili sono stati messi nello stesso calderone e obbligati a reagire. Stiamo parlando di una categoria non simpaticissima, ben lontana dall'immagine cinematografica del "pizzardone" anni '50. Una categoria oltretutto a digiuno di conflitto sindacale e delle sue regole; da sempre percorsa dal clientelismo e spesso scossa da casi di corruzione; abituata a "difendersi" ricorrendo ai trucchetti da leguleio, consentiti da una legislazione abnorme di cui sono obbligati a conoscere ogni singola piega. E che quindi, invece di prendere in mano l'arma dello sciopero, si è fatta tentare dall'aggiramento furbesco - consentito da regole giuste come da regolette assurde (ancora una volta tutto insieme) per realizzare uno "sciopero bianco" nell'occasione di massima visibilità.
Succede che a fare i furbi ci si dimostri ingenui. E i vigili romani lo sono stati di sicuro, nel loro rifiuto del conflitto aperto - "politico" - con l'amministrazione. Non hanno infatti capito che "è cambiata l'aria" e hanno ora contro - non più soltanto "sopra" - un potere in cerca di "casi esemplari" da usare come stracci per realizzare lo stravolgimento generale delle regole del lavoro, anche nel pubblico impiego.
Ma di ragioni oggettive ne hanno molte. Come tutto il pubblico impiego. Certo, dovrebbero forse farsi indicare la strada da un sindacato abituato al conflitto, antagonista politico che prova a leggere anche le dinamiche generali, lasciandosi alle spalle definitivamente le scorciatoie "furbette" e regolamentari, così come i sindacati complici che ora li stanno lasciando completamente soli dopo averne assecondato le abitudini peggiori.

venerdì 2 gennaio 2015

CALABRIA, MARLANE. RACCONTO DI UNA FABBRICA DEI VELENI


Dopo Casale Monferrato e Bussi, anche in Calabria ha vinto il padrone.
Nessuna giustizia per gli operai e le operaie deceduti per i veleni emessi dall’industria tessile.

La Calabria è una regione meravigliosa, ricca di rare bellezze naturali e con una struttura morfologica capace di regalare al territorio panorami mozzafiato. Coste rocciose e spiagge, sovrastate da quelle colline che fanno da cornice ai parchi e alle riserve naturali montane e sembrano essere guardiane dei litorali. Promontori e golfi, incantevoli alla sera anche se il mare è in burrasca. Prati, montagne innevate in inverno, boschi, frutta, castagneti, fiumi e laghi appartenenti ad un entroterra in cui la natura è stata generosa nel distribuire tutto il suo immenso splendore.
La Calabria. Una terra povera, madre di figli e figlie emigrati per altri luoghi alla ricerca di un lavoro, di un futuro stabile che purtroppo non riesce ad offrire. Sulla disperazione e su una forte disoccupazione ha radicato le sue radici la “malapianta” – la ‘Ndrangheta – organizzazione malavitosa capace di dipingere a tinte scure il volto di un territorio condannato a pagare, per lungo tempo, il prezzo del malaffare.
Un popolo dedito alla pesca, all’agricoltura e all’allevamento quando possibile. Un’area della penisola italiana tra le più indigenti che dalla metà degli anni 50, però, comincia ad essere bramata dai ricchi industriali dal titolo nobiliare, interessati ad accrescere i propri guadagni.

Questo incipit vale anche per Praia a Mare, la città dell’isola di Dino e della “fabbrica dei veleni”.
Sono gli anni del Dopo Guerra e della seconda tornata di imbarchi verso l’America, delle partenze alla volta delle miniere del Belgio e degli altri Stati europei o delle industrie dell’Italia Settentrionale quando il biellese industriale, conte Stefano Rivetti, giunge per la prima volta in quelle terre incontaminate e fa tappa a Maratea. La povertà è tanto diffusa quanto puliti e genuini sono quei luoghi, e per “risollevare economicamente il Sud Italia” fioccano fondi e finanziamenti elargiti dalla Cassa del Mezzogiorno, con il patrocinio dell’egemone Democrazia Cristiana. Con quei soldi Rivetti inizia a “civilizzare” quella parte della costa tirrenica, a metà tra la Lucania e la Calabria: l’azienda florovivaistica “Pamafi”, l’hotel a cinque stelle (ancora extra lusso) Santa Venere, il “Lanificio di Maratea S.p.A.” mandato avanti da 300 dipendenti, rappresentano una fetta del boom economico vissuto dall’Italia Meridionale alla soglia degli anni 60. Tutto sembra procedere a gonfie vele. Molte persone lasciano la zappa o abbandonano le battute di pesca e vengono impiegate in fabbrica, dove ricevono quel minimo di alfabetizzazione necessaria per imparare a leggere e a scrivere senza dover più firmare con una x. Finalmente si svolge un lavoro diverso, in grado di permettere stabilità economica.
Lo sviluppo industriale prolifera e varca il confine lucano giungendo nella vicina Calabria, a Praia a Mare. Qui, nel 1957, il conte Rivetti inaugura il “Lanificio R2” e la “Lini e Lane”, quest’ultima specializzata nel confezionare tovagliato e ricami.
Per il gruppo Rivetti comincia il declino: gli stabilimenti di Maratea e la Lini e Lane chiudono nei primi anni 70, e il Lanificio R2 sarà rilevato dall’IMI (Istituto Immobiliare Italiano) dall’ENI nel 1969, cambiando nome in “Lanerossi”. Nel 1987 la fabbrica è acquistata dal gruppo tessile Marzotto, con sede principale a Valdagno, in provincia di Vicenza, e sarà intitolata “Marlane-Marzotto S.p.A.”. I Marzotto sono una famiglia di conti, proprietari di un vero e proprio impero nella produzione delle stoffe: tre industrie presenti solo nel Veneto a Valdagno, Schio, Piovene Rocchette, nel vicentino; a Manerbio, nel Bresciano ed a Salerno. Tutte queste imprese, insieme al polo prajese, dismetteranno la propria attività agli inizi del 2000, per essere trasferite tra la Polonia e la Repubblica Ceca, mentre lasciano centinaia di persone senza un lavoro. E senza una buona salute.
“Perchè chiusero la fabbrica e ci tolsero il lavoro e ci resero la vita molto dura.”

A Praia a Mare, dicevamo, si producevano stoffe. I soli reparti di tintoria e filatura impiegavano più di 300 persone, provenienti anche dai paesi limitrofi come Tortora, Ajeta, San Nicola Arcella e Scalea. Il fiorente commercio e la grossa produzione permettevano ai lavoratori uno stipendio con cui potevano acquistare appartamenti o costruire le proprie case, avere i primi elettrodomestici e la macchina, togliersi qualche sfizio, viaggiare, permettere ai figli di avere l’istruzione a loro mancata per le carenze economiche o sperare che entrassero a lavorare in fabbrica, di modo che la “famiglia” non si sarebbe mai dovuta separare.
Su tutti questi “piccoli diritti da schiavo” il padrone ha accresciuto la propria ricchezza.
Su tutte queste apparenti soddisfazioni, sull’ignoranza e la necessità di “lavorare per campare” il padrone ha ricattato e sfruttato il proletario, abbattendo i costi sul lavoro. Parafrasando Marx si potrebbe affermare come il capitalista di turno – in questo caso Marzotto – abbia disposto la modalità e concesso il suo permesso affinché l’operaio potesse vivere e lavorare.
Le ottimali condizioni lavorative descritte dagli operai e dalle operaie nelle interviste di emittenti televisive e giornali, abili ad arricchire di maggiori dettagli felici quelle relazioni, ben presto si scopriranno solo “narrazioni di facciata” e frutto dell’omertà a cui si era costretti per continuare ogni mese a ricevere uno stipendio.

Nel 1968, mentre a Valdagno scoppia la rivolta degli operai della fabbrica Marzotto, sfociata in una ribellione cittadina portata avanti da 3.000 persone e i lavoratori, come atto liberatorio dalla pesante pressa del padrone abbattono la statua del conte Gaetano Marzotto; nella lontana Calabria, gli operai e le operaie della Marlane si ammalano e muoiono di uno strano malanno.
“E’ morto di un male. Non stava bene”, questo ripeteva il proletariato assoldato nel tessile.
Uno, due, tre, dieci. A metà degli anni 80 sono più di cinquanta le morti sospette avvenute per esalazioni tossiche. I dipendenti della Marlane hanno pagato con il silenzio e la vita il ricatto del padrone: se volevi continuare a lavorare dovevi nascondere la testa sotto la sabbia. Zitto e muto, eri costretto a calpestare la tua dignità di essere umano e ad inginocchiarti davanti al profitto del ricco industriale, da tutti apprezzato e rinomata benevola persona verso quel Sud in difficoltà.

Nel reparto di tintoria erano presenti delle vasche, prive di copertura, in cui i dipendenti, senza mascherine e guanti, immergevano a mani nude le stoffe nelle sostanze coloranti risultate essere tossiche. A peggiorare la situazione si aggiunse anche la rimozione dei separatori con il reparto di filatura.
L’impianto di areazione non funzionava e gli operai filtravano l’aria attraverso i propri polmoni. “Stamattina andiamo in Val Padana!”, scherzava qualcuno. Forse per sdrammatizzare, forse per farsi coraggio e stringere i denti ad andare avanti. Nel 1973 due operai addetti al carbonizzo, macchinario adoperato nella bruciatura dei peluche presenti sui capi scuri, decedono per un cancro all’apparato digerente.
Nessuno parlava, e se qualcuno si lamentava delle condizioni di lavoro era invitato ad andare via. Per un operaio licenziato, un altro era facilmente reperibile in una terra dove si scappa dalla mancanza di occupazione. L’aria puzzolente rendeva l’atmosfera irrespirabile e a fine turno, per ripulire le vie respiratorie, si beveva mezzo litro di latte.
Latte contro elementi tossici. Ottima soluzione, costo operaio pari a zero lire.
Il reparto di filatura aveva i telai in amianto: i freni sfregavano sulle macchine generando la polvere aspirata degli addetti ai lavori. Solamente nel 1996 una delegazione sindacale si recò a Roma per chiedere maggiore sicurezza sul posto di lavoro, anche perchè di medici nemmeno l’ombra.

Uno, due, tre, dieci, trenta, cinquanta, cento gli operai e le operaie morte di carcinoma e leucemia.
“Mio marito tornava a casa e sputava saliva nera nel fazzoletto. Tossiva.”- questo è il racconto della vedova di Biagio Possidente, preposto ai telai. “Non dovevo parlare o i miei figli non avrebbero trovato impiego in nessuna fabbrica. La casa? O compri o te ne vai.” è la testimonianza della vedova di Aurelio Greco, altro operaio deceduto per cancro e residente in una di quelle palazzine tra cui si trova anche il “palazzo delle vedove” poichè 5 persone su 6 sono morte per un cancro ed altre sono in cura. Oltre il danno la beffa, se pensiamo all’obbligo di acquisto a cui sono stati vincolati gli ex dipendenti Marlane o i loro eredi senza avere l’appoggio delle istituzioni locali, evidentemente troppo affaccendate ad oscurare la vicenda ed a proteggere padron Marzotto.
Il figlio del signor Greco, invece, narra gli ultimi drammatici momenti di vita del padre quando i due Bravi, inviati dal Veneto in Calabria su ordine di Don Rodrigo, giungono in ospedale e prendono la mano lavoratore ormai in stato terminale e di semi-coscienza per “aiutarlo” a firmare la lettera di licenziamento. “O firmava o non avrei avuto diritto alla pensione. Così mi hanno detto quando sono andata in fabbrica per chiedere come mi dovevo muovere”. E’ sempre la vedova Greco a rivivere le tristi giornate rimaste indelebili nella sua memoria, che si libera di quel peso tenuto dentro per tanto tempo ai microfoni di Crash, un programma trasmesso su Rai Tre solo anni dopo rispetto al primo interessamento della magistratura sul caso. Gli stessi giornalisti intervistano anche Luigi Pacchiano, operaio che preferì licenziarsi dalla fabbrica perchè malato e privo di qualunque aiuto da parte dei sindacati e dei responsabili Marlane; che insieme ad Alberto Cunto, un altro dipendente, svelerà i retroscena della vita in fabbrica.
I giornalisti raccolgono anche un’altra importante esposizione, o meglio una “testimonianza chiave” per l’intero processo che di li a poco prenderà il via: il resoconto di Francesco De Palma. L’operaio, specializzato nel reparto tintoria dal 1964 al 1990 ed oggi deceduto pure lui a causa di una neoplasia, nell’intervista ricorda i fine settimana in cui, su comando dei responsabili della sede prajese, con un altro collega scavava delle grosse buche. A ridosso della spiaggia, distante una manciata di metri dal capannone, fusti pieni di liquame e di rifiuti altamente tossici sono stati seppelliti nel sottosuolo e coperti da terra e omertà. De Palma continua la sua narrazione tossica e descrive il cattivo funzionamento dell’impianto depurativo dell’azienda: sebbene saturo al 70%, si proseguiva con lo scarico delle acque reflue all’interno dei pozzi. Liquidi provenienti dalla tintura, dal finissaggio e dal lavaggio venivano schiariti dal depuratore e poi rigettate nel mare mentre i fanghi di lavorazione, una volta diluiti, erano riversati sul nudo terreno.

Deposizioni particolarmente allarmanti quelle rilasciate dagli ex operai e dai loro congiunti, così tanto preoccupanti da accendere un campanello di allarme tra ambientalisti, comitati e cittadinanza, oltre che della Procura di Paola. Arriviamo al 1996. Dopo anni si avviano le prime indagini e nel 1999, invece, l’inchiesta varcherà le porte dell’aula del tribunale calabrese.
Intanto la globalizzazione avanza e il procedimento di privatizzazione finisce per investire totalmente anche l’economia di casa nostra. Il gruppo Marzotto, allo scopo di moltiplicare i propri profitti, decide di spostarsi nell’Europa dell’Est: i lavoratori sono meno esigenti e la manodopera costa solamente 5 euro all’ora. Dal 2000 al 2004 i macchinari vengono smontati e trasferiti fuori dall’Italia, creando danni anche ad altre piccole imprese (trasporti, rammendo). A nulla serviranno gli scioperi della fame, le minacce di suicidio urlate dall’alto dei silos sui quali sei dipendenti restarono arrampicati una settimana, giorno e notte. A nessun risultato porterà il blocco della Statale 18. Il padrone aveva già deciso: era giunta l’ora di chiudere, e pur di giustificare l’abbandono dell’attività aziendale si useranno scuse improponibili; come le troppe ore di malattie richieste da squadre operaie pigre e vagabonde, scarsa produzione. La Marlane tramonta nel 2004.
Nel frattempo, però, dalla Procura di Paola partono nuove indagini, guidate dal procuratore Bruno Giordano, figura fortemente impegnata contro gli ipotetici disastri ambientali avvenuti in terra calabra.
Nel 2006 e nel 2007 sono avviate due importanti investigazioni sui rifiuti tossici molte volte nominati dai vari teste. Un pool, tra tecnici e investigatori, assieme al NOE effettua scavi e rilievi sul sito ritenuto inquinato. Gli esperti rinvengono alcuni fusti e dei contenitori in cui sono racchiusi dei liquami. Coloranti azoici, estremamente pericolosi per la salute umana e l’ecosistema; Cromo, Nichel, Metalli Pesanti, Arsenico e Idrosolubili, questi ultimi velocemente assimilabili da piante e tessuti, sono le sostanze rinvenute nel perimetro della Marlane sul quale, però, si scava a 3- 4 metri di profondità rendendo impossibile la conoscenza dello stato di salute delle falde acquifere.

I risultati di questa prima parte di indagine, consultando gli atti dell’ARPACAL e dell’ASP, portano ad un grosso buco nella documentazione relativa allo smaltimento dei fanghi industriali avvenuta nel periodo 1993-1995 e 2000-2004.
Nel primo caso si sommano circa 750 tonnellate eliminate in Campania fino al 1993, anno in cui l’amministrazione regionale campana pone un freno ai rifiuti provenienti da fuori regione. La Marlane, allora, trasporta i fanghi presso l’impianto di bio-conversione in contrada Costapisola, nel comune di Santa Domenica Talao. Nel 1998, però, si costituisce una commissione d’inchiesta parlamentare sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, e in una parte del resoconto “Missione Calabria” si legge come Costapisola non abbia alcun impianto ma solo un terreno sul quale gli scarti vengono depositati.
Nella seconda circostanza, invece, si è celebrato un processo per illecito smaltimento dei rifiuti concluso con un patteggiamento sui reati contestati.

A distanza di oltre dieci anni dalle prime inchieste, ad aprile 2011 si apre il Processo Marlane; tra i più rilevanti in ambito di materia lavoristica per tutto il Sud Italia. L’area è sottoposta a sequestro per evitare ipotetiche manomissioni dei luoghi e la Pubblica Accusa è guidata dalle PM Linda Gambassi e Maria Camodeca, mentre il procuratore Bruno Giordano corre in ogni modo contro il tempo delle prescrizioni previste per i vari capi di accusa.
Le imputazioni da provare per rendere giustizia a 107 operai deceduti e più di cento persone ad oggi malate sono abbastanza gravi: omicidio colposo plurimo aggravato da omissione di cautele sul lavoro; lesioni gravissime; disastro ambientale. Tredici gli imputati iniziali, ridotti a dodici dopo il decesso di uno degli accusati: Pietro Marzotto, ex presidente del gruppo “Eni- Marzotto”, l’ex amministratore delegato Silvano Sroner, il manager Jean De Jaegher, l’ex sindaco di Valdagno e vicepresidente della Lanerossi, Lorenzo Basetti, l’ex sindaco di Praia a Mare e caporeparto alla Marlane, Carlo Lomonaco, Vincenzo Benincasa, Giuseppe Ferrari, Lamberto Priori, Ernesto Antonio Favrin, Attilio Rausse. Le parti civili costituitesi tali al processo sono state le seguenti: Legambiente, WWF, comune di Tortora, CGIL, CISL, UIL, SLAI COBAS, SI COBAS, parenti e operai dell’azienda. Tra questi ultimi, diverse le figure che hanno ritirato la propria posizione di parte civile al processo. Un ritiro avvenuto lo scorso anno a seguito dei 5 milioni e 500 mila euro distribuiti agli stessi da Marzotto affinchè abbandonassero il processo. Così è stato.
Dopo due anni di fitti interrogatori, ipotesi sullo spostamento del processo presso il Tribunale di Vicenza, controperizie distrutte da una difesa scellerata, come l’arringa dell’avvocato Matteo Usleghi, difensore dell’ENI il quale ha ritenuto “di non particolare gravità le sostanze rinvenute nel terreno per dichiarare il disastro ambientale, poiché presenti in una soglia troppo bassa rispetto ai limiti”; alla fine, il Processo Marlane si è concluso venerdì 19 dicembre 2014. La sentenza di primo grado è stata di assoluzione in formula piena per insufficienza di prove e perchè il fatto non sussiste. Tutti assolti. Nessun colpevole.

Insomma, alla Marlane di Praia a Mare non è accaduto nulla.
Come può mai essere credibile un verdetto simile dopo le tante dichiarazioni e le reali presenze nocive scoperte proprio nei terreni intorno allo stabilimento? Come si può accettare il silenzio dei sindacati; prova inconfutabile di quanto distanti siano ormai dai reali bisogni dei lavoratori. Perchè in tutta questa vicenda occorre domandarsi anche il movente secondo cui l’attuale sindaco Antonio Praticò, sindacalista per la Cisl all’interno della Marlane, si ricordi solo molto tempo della probabile potenzialità inquinante della zona industriale. Perchè, sapendo che il sito Marlane è stato riconosciuto come inquinato, avrebbe dovuto ritardare il processo di bonifica ottenendo i fondi provenienti dal progetto del Ministero dell’Ambiente MIAPI, volto all’individuazione di aree inquinate? Dove si trovavano sindacalisti e responsabili di sicurezza quando gli operai e le operaie inalavano veleno?
Il giudizio ottenuto con il primo grado di appello conferma come una bonifica, su quegli appezzamenti, se mai avverrà, si verificherà in maniera parziale. Grazie anche alle ultime modifiche apportate dal decreto legge Sblocca Italia in materia di bonificazione, la palla passa totalmente nelle mani del privato inquinatore e, secondo il “principio del chi inquina paga” e la netta esclusione dell’Arpa e di ogni altro ente locale interessato ad avere l’ultima parola sull’autocertificazione (presentata da chi ha devastato i territori, quindi libero di riportare la presenza di materie meno pericolose e perciò meno costose per la decontaminazione), diventa speranza effimera anche la possibilità di ripristinare i luoghi contaminati.
La rabbia, prima umana poi politica, divampa dentro come un incendio. Non esiste giustizia sociale ma soltanto un sistema di leggi create ad hoc per essere rigirate e applicate secondo il potere dei più forti. Il caso Marlane è stato il fanalino di coda dei tanti procedimenti a danno della salute dell’ambiente e delle persone e contro il diritto e la dignità del lavoro che si sono conclusi in quest’ultimo anno; confermando come la legge del capitale riesca sempre a spuntarla. A difesa della Eni e della Marzotto vi erano abili e furbi legali, come Ghedini (già avvocato Confindustria), Pisapia, Calvi del PD… nomi conosciuti contro i quali gli avvocati di accusa sono stati umili e coraggiosi a battersi fino alla fine per rendere giustizia ai “caduti della Marlane”. Sentenze “positivamente shock” nessuno le attendeva ma cavarsela così proprio non è accettabile.
Non esiste equità e qualcuno si azzarda anche a festeggiare la vittoria del padrone, che schiaccia i suoi schiavi con il tallone di ferro, come direbbe Jack London.
Il padrone. Colui capace di illudere per anni e anni la classe operaia, vissuta nell’illusione di potersi riscattare dal suo antico miserabile status di sfruttata e subordinata al profitto dei colossi industriali.
C’è ancora sete di giustizia, però.
Solo nei centri di Praia e Tortora i malati di cancro sono più di un centinaio e varie sono le persone decedute a causa di carcinomi. Spazzate via in pochi mesi, qualche settimana addirittura.
La battuta di arresto è dura da accettare, ma è necessario pensare a nuove tattiche per contrastare la gravissima devastazione ambientale e i suoi tragici effetti sulla condizione umana.
Occorre insistere sullo stretto nesso esistente tra patologie tumorali e territorio inquinato, ma non solo a Praia: non bisogna dimenticarsi delle navi dei veleni, degli impianti bloccati di San Sago (Tortora), delle discariche abusive.
Occorre informare ed essere informati per contrastare il pericoloso attacco sferrato dal capitalismo, che sebbene sia al collasso, continua ancora a mettere a profitto le risorse naturali e le vite.
Occorre incalzare sull’istituzione di un registro tumori a livello regionale, affinché possano essere pianificati gli screening oncologici, necessari nella prevenzione delle neoplasie.
Solo se agiremo con costanza e dedizione, pianificando al meglio le prossime mosse, le generazioni future non saranno condannate e sarà reso onore a coloro i quali hanno abbandonato fin troppo presto i propri affetti solamente per il lavoro.

E, a questo punto, il diavolo si ritenne soddisfatto del suo lavoro, toccò a lui prender sonno mentre si svegliava il Signore.
Quando, aperti gli occhi, potè abbracciare in tutta la sua vastità la rovina recata alla creatura prediletta , Dio scaraventò con un gesto di collera il Maligno nei profondi abissi del cielo.
Poi, lentamente rasserenandosi, disse: – Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola.
Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l’ho voluta.
La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto. Utta a fa juornu c’a notti è fatta -. Una notte che già contiene l’albore del giorno. >> (Leonida Repaci – Quando fu il giorno della Calabria)

Fonti: HTTPS://WWW.YOUTUBE.COM/WATCH?V=KBVXXM58UKA

CENTOSETTE MORTI ALLA MARLANE, MA IL FATTO NON SUSSISTE, Il manifesto

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