di Diego Bossi
Ed eccoci qua, alla fine di questo 2014, che ci ha visto protagonisti di tante lotte insieme, di vittorie come di sconfitte.
Quest'anno che ci lasciamo alle spalle è stato importante, sia sindacalmente, sia sotto l'aspetto umano e sociale.
Noi lavoratori del Coordinamento Cub Pirelli abbiamo stretto un bellissimo sodalizio con i lavoratori della Electrolux, che ci hanno dato l'opportunità di andare con loro a Roma a manifestare, dove abbiamo potuto assistere alla vergognosa esclusione della Cub da parte del Ministero dello sviluppo economico. Da quell'esperienza ci siamo ingranditi costituendo il Coordinamento Milano nord-ovest, che annovera lavoratori di Edmond Pharma, Roche, Famar e Archema, oltre che Pirelli ed Electrolux.
Quest'anno è stato anche un anno di vertenze importanti, su tutte ricordiamo Marco Valdez, autista sotto padroncino in appalto alla potente Sifte Berti, dove il nostro contributo è stato decisivo per arrivare a una conciliazione ragionevole; i fratelli Todaro, dipendenti della trafileria Gilardi di Sesto San Giovanni che con coraggio e dignità hanno lottato per i loro diritti contro padroni dispotici e colleghi vili, sacrificando il loro posto di lavoro; Raffaele Trizio, assistente sociale all'ospedale San Paolo, che per combattere contro il suo ingiusto licenziamento ha fatto un lungo sciopero della fame, dove la nostra solidarietà non è mancata fino al raggiungimento di una sentenza di reintegro.
Ricordiamo inoltre la nostra splendida collaborazione con il comitato IO HO L'ENDOMETRIOSI e con la Cub di Brescia, dove assieme abbiamo fatto un volantinaggio informativo nel centro bresciano per sensibilizzare la gente su questa brutta malattia che colpisce tre milioni di donne in Italia, causando loro invalidità, infertilità e gravi problemi psicologici, sociali e lavorativi.
Voglio poi personalmente ringraziare Giovanni Cippo, il volto e la voce della Cub, per me. Da quando l'ho incontrato mi sono ritrovato in tribunali a seguire vertenze, in uffici di grandi capi e sindaci, fuori da fabbriche a fare presidi, a volantinare e attaccare manifesti di notte... insomma: con Giovanni non ci si annoia.
Un pensiero amichevole va infine ai compagni di NO AUSTERITY che ci hanno accompagnato in tante lotte.
Qualche giorno prima di Natale mi sono ritrovato a tornare da Roma a bordo di un Freccia Rossa, che ha totalizzato la bellezza di 134 minuti di ritardo rispetto all'orario di arrivo previsto a Milano: un guasto tecnico, hanno annunciato agli altoparlanti. Mentre ero fermo in questo serpente d'acciaio nel mezzo della campagna emiliana, controllavo sul sito dell'ansa se ci fosse qualche trafiletto sul convoglio bloccato. Niente. Allora per passare il tempo ho provato ad immaginare che la notizia avesse rilievo nazionale e che il mondo politico la commentasse...
FRECCIA ROSSA IN PANNE PER DUE ORE
Dura la reazione di Forza Italia: "Non ci stupisce che un treno dal nome comunista si sia rotto. Recuperiamo subito la scatola NERA, prima che le toghe ROSSE insabbino tutto".
La Lega nord, fa sapere in un comunicato stampa, lotterà da subito contro l'utilizzo di personale extra-comunitario e dell'Italia meridionale nelle squadre di manutenzione dei convogli.
Non si fa attendere il comunicato dei Radicali che propongono subito un'amnistia per assumere gli ex detenuti negli organici di Trenitalia.
Il PD fa sapere che ha programmato una riunione straordinaria d'urgenza dove le 184 correnti interne potranno lavorare per una posizione comune sull'evento in questione. I dalemiani non sono d'accordo con i prodiani ma simpatizzano con i bersaniani che a loro volta hanno rotto con gli ex rutelliani amici di Cuperlo ma non tanto amici di Civati che però ogni tanto escono a bere con la Bindi a patto che venga anche Franceschini in compagnia di almeno tre renziani ma senza la Boschi altri menti non viene la Madia.
Reazione dura dei 5 stelle: Carrozze in streaming e primarie on-line per i capi stazione e macchinisti.
Da Fratelli d'Italia puntualizzano: Quando c'era il Duce i treni arrivavano in orario (specialmente quelli per Auschwitz e Mauthausen, aggiungo io).
Beh... scherzi a parte, ho pensato che questa nostra Italia sia un po' come il Freccia Rossa: Potenzialmente in grado di correre a 300 all'ora, ma che va a rilento, se non ferma, e alla fine in qualche modo, non si sa quando, arriverà. Troppo tardi per prendere le coincidenze, bisognerà arrangiarsi. Ce la caveremo? Speriamo di si!
A voi tutti auguro un 2015 di lotta, partecipazione e di conquiste!
Vi abbraccio e vi dedico questo video tratto dal finale del film "IO SPERIAMO CHE ME LA CAVO", dove le parole di un bambino napoletano rappresentano tutti noi magistralmente, offrendoci la consapevolezza di essere sgarruppati, ma dandoci la speranza di riuscire a realizzare i nostri obbiettivi!
BUON 2015 A TUTTI!
domenica 28 dicembre 2014
sabato 27 dicembre 2014
MARCO TRAVAGLIO NEWS
ARTICOLO
18 E JOBS ACT RIVOLUZIONE A METÀ: MENO DIRITTI PER TUTTI
IL
RITORNO IN AZIENDA RESTA PER POCHI CASI: AGLI ALTRI LICENZIATI INGIUSTAMENTE
SOLO UN RISARCIMENTO MASSIMO DI 24 MENSILITÀ. E I SOLDI PER I SUSSIDI NON
AUMENTANO
di
Stefano Feltri e Marco Palombi
A due giorni
dal Consiglio dei ministri della vigilia di Natale arrivano le prime reazioni
ai due decreti legislativi con cui il governo attua la legge delega sul Jobs
Act. Secondo la Cgil le misure presentate dal premier Matteo Renzi danno “il
via libera alle imprese a licenziare in maniera discrezionale lavoratori
singoli e gruppi di lavoratori”. I decreti sono due: uno riforma l’articolo 18
dello Statuto dei lavoratori e tutta la disciplina sul contenzioso tra impresa e
lavoratore licenziato. Il secondo è dedicato agli ammortizzatori sociali, le
misure di sostegno che scattano quando si perde il lavoro, e introducono la
“Naspi, Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego” (riguarda
solo i dipendenti, statali esclusi). Dopo il Consiglio dei ministri, Renzi ha
annunciato una “rivoluzione copernicana” e ha spiegato che “nessun imprenditore
può dire che c'è in Italia un sistema che disincentiva la libera azienda”. Il
Nuovo centrodestra, con Maurizio Sacconi, avrebbe voluto anche la clausola
dell’opting out, cioè la possibilità per il datore di lavoro di aggirare il
residuo obbligo di reintegro in caso di licenziamento ingiusto sostituendolo
con un maxi-risarcimento economico. Le norme si applicano ai nuovi assunti, ma
nei decreti ci sono incentivi a favorire il cambiamento del mercato del lavoro
per assoggettare quante più persone possibili alla nuova disciplina. Qui sotto
vi spieghiamo cosa cambia.
COSA
CAMBIA
Reintegro
più difficile, tutele poco crescenti
Con il Decreto
legislativo sulle tutele crescenti cambia la disciplina sui licenziamenti. Il
giudice resta coinvolto, ma con meno poteri: può stabilire la nullità di un
licenziamento (lo garantisce la Costituzione) ma anche nel caso di
licenziamenti individuali senza giusta causa, come nella riforma Fornero, la
discrezionalità tra reintegro sul posto di lavoro o risarcimento. Ma
l’indennizzo monetario diventa l’esito di gran lunga più probabile.
SOLDI,
NON REINTEGRO. La novità
anche simbolica del decreto legislativo riguarda i licenziamenti per
giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa. Il reintegro sul
posto di lavoro, stabilito dal giudice, resta soltanto in un caso. Se il
lavoratore riesce a dimostrare “direttamente” la “insussistenza del fatto materiale
contestato”. Come spiega sul suo blog Pietro Ichino, è una novità rilevante:
“Non basta che la decisione del giudice circa la radicale insussistenza del
fatto contestato sia fondata su presunzioni. E soprattutto, non basta che la
decisione del giudice si fondi sull’insufficienza della prova circa il fatto
acquisita per documenti o per testimoni, ovvero sulla possibile sussistenza di
un ragionevole dubbio circa la colpevolezza del lavoratore: quando di questo si
tratti, il lavoratore avrà diritto soltanto all’indennizzo giudiziale, secondo
la nuova regola generale, ma non alla reintegrazione”. Non c’è più il
riferimento al contratto nazionale di categoria, che poteva prevedere tutele
aggiuntive. Lo scopo sembra essere quello di scoraggiare il ricorso al giudice
e spingere il lavoratore a trovare un accordo economico con l’azienda al
momento del licenziamento.
QUANTO
SI PUÒ INCASSARE. Chi
ottiene una sentenza favorevole in caso di licenziamento discriminatorio, nullo
o comunicato a voce e quindi inefficace, può avere una indennità che va da
cinque mensilità e come massimo una cifra calcolata sulla base dell’ultima
retribuzione per il periodo in cui il lavoratore è stato fuori dall’azienda, ma
tolti i redditi da lavoro maturati nel frattempo. In caso di licenziamento
senza giusta causa, se non viene accordato il reintegro, il giudice può
stabilire un risarcimento economico pari a “due mensilità della retribuzione
globale di fatto per ogni anno di servizio”, con un minimo di quattro mensilità
e un massimo di 24. Tradotto: soltanto dopo 12 anni di servizio un dipendente
può aspirare al risarcimento massimo in caso di licenziamento ingiusto. Sono le
tutele crescenti: i dipendenti appena assunti sono licenziabili con un rischio
economico minimo per l’azienda.
LICENZIAMENTI
COLLETTIVI. C’è
l’indennizzo invece del reintegro anche nel caso dei licenziamenti collettivi
quando vengono violate le procedure o i criteri di scelta se il dipendente è
stato assunto con le tutele crescenti, cioè con le nuove regole.
LA
DIMENSIONE. Oggi le
imprese con meno di 15 dipendenti non sono tenute ad applicare l’articolo 18
sul reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa. Con la riforma di
Renzi anche per loro vige il sistema delle tutele crescenti ma il risarcimento
massimo è limitato a sei mensilità.
SINDACATI
E PARTITI. La nuova
disciplina, a differenza di quella precedente, si applica anche a “datori di
lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura
politica, sindacale, di istruzione ovvero di religione o di culto”. Fino a oggi
i sindacati potevano non applicare lo Statuto dei lavoratori e l’articolo 18 ai
loro dipendenti, ora dovranno usare il sistema delle tutele crescenti con
possibilità di reintegro per il dipendente licenziato.
COSA
NON CAMBIA
Ammortizzatori
sociali, è diverso solo il nome
Per Matteo
Renzi la faccenda si riassume così: “Più tutele a chi ne ha bisogno, più
libertà a chi vuole investire: non lo riconosce solo chi è ideologico o in
malafede”. In attesa di vedere quante assunzioni porterà la cancellazione
dell’articolo 18 per i nuovi assunti, si può dire che l’estensione delle tutele
è falsa. Il premier si riferisce, infatti, all’estensione degli ammortizzatori
sociali anche ai lavoratori precari (ma non alle partite Iva, già colpite dalla
stangata del nuovo regime dei minimi): peccato che nella maggior parte dei casi
- come risulta dallo stesso decreto pubblicato dal governo - ci si limiti a
cambiare nome a quelli esistenti.
NASPI. Al
posto dell’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego) arriva il Nuovo Aspi o
Naspi: si tratta sempre di una forma di sostegno al reddito per i lavoratori
subordinati che perdono il posto pagato con apposite trattenute in busta paga.
La sua durata massima passa da 12 mesi a quasi un anno e mezzo (78 settimane,
per la precisione), ma l’importo dell’assegno cala. Non solo, come ha scritto
Stefano Fassina nel suo blog su Huffington Post: “L’assegno scende a circa 400
euro al mese nel semestre finale: maggiore durata e minore importo si
compensano per i più ‘fortunati’, gli altri ci perdono”. Insomma, non proprio
un affare.
ASDI. Dopo
la Naspi, c’è l’assegno di disoccupazione detto appunto Asdi. Per il momento si
tratta solo di una sperimentazione tra maggio e dicembre 2015: ha durata
massima di soli sei mesi e ammonta al 75% del trattamento Naspi, cioè circa 300
euro al mese. In sostanza si tratta del vecchio “sostegno all’inclusione
attiva” appositamente rinominato. La concessione del sostegno è subordinato
alla quantità di Isee familiare (deve essere molto basso) e all’adesione a un
progetto personalizzato redatto da un centro per l’impiego, previsione
straordinariamente fantasiosa stante l’attuale funzionamento di quegli enti e
del mercato del lavoro. Come che sia, l’Asdi è l’unico capitolo su cui ci sono
risorse nuove: nel decreto presente sul sito si parla di 300 milioni sul solo
2015 e si prevede che “all’eventuale estensione si provvede con risorse
previste da successivi provvedimenti”. Fonti di governo, nei giorni scorsi,
hanno riferito di problemi nel reperimento delle coperture sollevati dal
Tesoro: il testo, ad ogni buon conto, è stato approvato “salvo intese” e dunque
non è ancora definitivo.
DIS-COLL. È
l’indennità di disoccupazione mensile per i precari (co.co.co. e co.co.pro.,
non le partite Iva e neanche le altre forme di contratti precari) che
perderanno il lavoro durante il 2015. Si chiama Dis-Coll e più o meno ricalca
la Nuova Aspi di cui abbiamo parlato prima: viene pagata in proporzione al
numero di mesi in cui si erano versati i contributi (la metà), ma comunque per
non più di sei. Anche questa nuova forma di sostegno al reddito è una
sperimentazione valida solo per l’anno prossimo, anche perché nel frattempo
dovrebbe arrivare un decreto attuativo che cancella le collaborazione coordinate
(l’idea, vagamente ottimista, è che tutti passino a usare il contratto unico a
tutele crescenti al posto di quelli precari, che pure resteranno in vita).
Anche in questo caso si tratta, comunque, della rimodulazione di un
ammortizzatore già esistente, solo che quello che prima era un pagamento
forfettario viene rateizzato mensilmente. Nello stesso decreto viene chiarito
che su questo capitolo non ci sono risorse aggiuntive, anzi viene finanziata
con “quelle già previste per il finanziamento della tutela del sostegno al
reddito dei co.co.co”.
ARTICOLO DI TOMMASO PIROZZI
Camusso Renzi e il Job Act
In questi giorni si discute tanto dell’art. 18, e a fasi
alterne diventa il fulcro della discussione sulle politiche del lavoro in
Italia. Si tratta in realtà di una discussione surreale, perchè da tempo in
Italia tale questione ha perso di qualsiasi parvenza di realtà. La “verità” è
un’altra. L’art. 18 è già morto. Sul suo cadavere si gioca ben altra partita:
il controllo diretto sui lavoratori/trici e l’istituzionalizzazione della
condizione precaria come paradigma del rapporto capitale/lavoro.
Il dibattito sull’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei
lavoratori è già superato nei fatti. La discussione in corso è puramente
ideologica, strumentale per entrambe le parti in causa, cioè governo da un lato
e sindacati tradizionali (specie la Cgil) dall’altro.
Il governo accusa, ideologicamente, i sindacati di essere
ideologici e di non occuparsi delle persone, di essersi sempre occupati solo
degli occupati e non dei disoccupati, dei (supposti) garantiti e non dei
precari.
La Cgil risponde, su un piano altrettanto ideologico, che
depotenziare ulteriormente l’art. 18 significa attaccare direttamente i diritti
dei lavoratori, così come fece la Thatcher in Inghilterra alla fine degli anni
Settanta, oltre 40 anni fa.
Il giovane Renzi riveste così i panni dell’innovatore o,
meglio, del “rottamatore sociale”, schiacciando la palla in rete, puntando sul
fatto che la maggioranza dei precari non potrebbe certo disconfermarlo (“dove
eravate, o sindacati?”).
La Cgil e la Fiom, punte sul vivo, si offendono e si ergono
a paladine dei lavoratori, riproponendo uno scontro sociale di stampo
tradizionale (almeno sulla carta) che poco ha a che fare con l’attuale
composizione del lavoro.Che il terreno dell’analisi e delle battaglie contro la
precarietà lo a percorso in lungo e in largo in questi anni, ricorderà
sicuramente i fatti e le modifiche legislative sul tema.
La memoria non ci fa difetto e i due contendenti, Renzi e
Cgil, dovrebbero smetterla di alzare questa polvere, entrambi convinti che il
pubblico di idioti che hanno generato non sia in grado di capire che tali
schermaglie servono solo a sostenersi reciprocamente, come accade a volte agli
ubriachi.
1. Con la riforma Fornero
viene di fatto liberalizzato il licenziamento individuale senza obbligo di
reintegro (sepoltura dell’art. 18, già in stato comatoso). Basta infatti la
giustificazione economica (che diventa “giusta causa”, o meglio “giustificato
motivo oggettivo”) perché partano le lettere di licenziamento compensate da un
minimo di preavviso e da un indennizzo da 12 a 24 mensilità, a seconda
dell’anzianità. Questo percorso era prima consentito solo per i licenziamenti
collettivi, art. 223/1991, e doveva essere confermato dalla dichiarazione di
uno “stato di crisi” dell’azienda. Oggi non solo si confà al singolo ma la
prova dell’eventuale illegittimità del licenziamento per discriminazione
diventa a carico del lavoratore. Solo nel caso in cui venga effettivamente
comprovata, il giudice può disporre il reintegro o il pagamento dell’indennità.
l’automaticità del reintegro è già, con ciò, parzialmente compromessa.
2. Con la legge 78 approvata
in via definitiva lo scorso 16 maggio, nota come legge Poletti (o Job Act, atto
I) si sancisce la totale liberalizzazione del contratto a termine rendendolo
a-causale. Viene con ciò fittiziamente posto un limite massimo ai rinnovi
possibili (cinque), ma poiché i rinnovi non sono applicabili alla persona ma
alla mansione, basta modificare quest’ultima per condannare una persona al
lavoro intermittente a vita. La precarietà è stata così completamente
istituzionalizzata.
3. Con il testo deliberato
dalla Commissione Lavoro del Senato (Job Act, atto II ) si istituisce il
contratto da lavoro dipendente a tutele crescenti, in relazione all’anzianità
di servizio. Si tratta di uno stravagante “contratto a tempo indeterminato”che
dà la possibilità al datore di lavoro di interrompere il rapporto in qualunque
momento e senza motivazione nei primi tre anni.In pratica, in questi primi tre anni,
l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non si applica, a eccezione dei
licenziamenti privatamente discriminatori. Insomma, un fiore e una prece
speranzosa dopo la già avvenuta sepoltura della cara norma che fu. Poiché nel
testo non si dice se tale tipo di contratto andrà a sostituire i contratti in
essere, esso si aggiunge alla normativa già esistente, come dichiarato con
soddisfazione da Sacconi e Ichino. Si pone allora l’ovvia domanda: se già si
può assumere (nel caso si voglia assumere) un lavoratore o una lavoratrice con
un contratto a termine senza alcuna motivazione (come avviene per oltre il 90%
con le nuove assunzioni), perché mai un datore di lavoratore sarebbe
incentivato a utilizzare questo nuovo contratto “a tutele crescenti”? Ebbene, potrebbe
essere disposto a farlo nel caso in cui avesse estrema necessità delle
competenze e della professionalità del lavoratore/trice. Ma grazie alla “tutela
crescente”, invece, potrà sottoporre a un lungo periodo di prova, lungo la
bellezza di tre anni, anche coloro che hanno questi requisiti. Il capolavoro è
compiuto, il futuro incerto.
Quindi, la triade “apprendistato” per i giovani con
qualifiche medio-basse, “tempo determinato” a-causale come contratto standard
di lavoro e infine “tempo indeterminato con prova di tre anni”per i più
qualificati sancisce la completa irreversibilità della condizione precaria,
confermandone la natura esistenziale, strutturale e generalizzata.
Alla luce di questi ricordi e di queste considerazioni,
discutere adesso del mantenimento dell’art. 18 dopo la stabilizzazione del
contratto di lavoro, passati i “primi tre anni di prova”, appare quantomeno
paradossale.
Renzi e il governo si fanno garanti della continuità delle
politiche di austerity, rispondono agli interessi del grande capitale
finanziario, accontentando in contemporanea il garante Napolitano e il Fmi.
I sindacati alzano a
parole le barricate, dichiarando, nel desiderio di essere credibili (e qualcuno
ancora ci casca!), che adesso chiuderanno le porte della stalla, ben
consapevoli, però, che tutti gli animali son scappati da molto tempo.
20 anni fa proporre ai lavoratori un Jobs Act sarebbe stato
impensabile, sebbene i padroni vogliano sempre misure che favoriscono il
profitto e le rendite a discapito del lavoro.
Ma davvero è tutta
“colpa” di Renzi e dei - suoi e nostri - padroni se presto avremo il
nostro bel Jobs Act?, o è colpa nostra?!, perché il Jobs Act non è il simbolo
della “cattiveria” di Renzi, ma quello dell'arretratezza del movimento dei
lavoratori.
Capire questa cosa così semplice, eppure così essenziale, ci
permetterebbe di spostare il nostro focus da loro a noi per provare a capire,
parafrasando un libro di successo, dove sono i nostri, certo, ma anche e
soprattutto chi sono i nostri, perché capire chi sono i nostri significa capire
chi siamo noi, quello che vogliamo, quello di cui abbiamo bisogno, ciò che
consideriamo principale e ciò che consideriamo secondario.
I nostri compiti. Se i lavoratori sono deboli bisogna capire
perché. E dopo aver capito perché i lavoratori sono deboli bisogna tentare di
capire come possono diventare forti smettendo almeno per un attimo di
minacciare “autunni caldi” che non si scaldano da 50 anni e
di auspicare ricomposizioni “di classe” che non si ricompongono mai.
Lamentarsi con Renzi per il Jobs Act è come lamentarsi con
la pioggia perché bagna. È nella natura della pioggia bagnare così come è nella
natura dei padroni – e dei loro funzionari politici – stangare i lavoratori; se
non vuoi bagnarti devi aprire l'ombrello, altrimenti i padroni, l'ombrello, te
lo mettono dove sappiamo.
E se non vuoi essere stangato devi organizzarti: non per
racimolare qualche euro in più, ma per cambiare la tua vita. E il primo passo
di questo cambiamento è lottare per questo tipo cambiamento.
Questo
è il capitalismo, una società in cui la vita è nulla e il profitto è tutto.
Dobbiamo
abbattere questo sistema economico e sociale con ogni mezzo.
Dal
sito:
venerdì 26 dicembre 2014
CIAO ALESSIA!
Apprendiamo oggi della tragica scomparsa di Alessia, giovane donna del comitato IO HO L'ENDOMETRIOSI.
Ci uniamo al cordoglio della famiglia e di tutte le donne che hanno condiviso tante battaglie con lei.
http://ioholendometriosi.blogspot.it/2014/12/ciao-alessia-trabalzi-la-roscia.html?m=0
Ci uniamo al cordoglio della famiglia e di tutte le donne che hanno condiviso tante battaglie con lei.
http://ioholendometriosi.blogspot.it/2014/12/ciao-alessia-trabalzi-la-roscia.html?m=0
mercoledì 24 dicembre 2014
documento di Enrico Baroni in risposta all' articolo de LA GAZZETTA DELLA MARTESANA del 22 Dicembre 2014
Alla
Gazzetta della Martesana
Alcune precisazioni sull’articolo “Sfila un corteo contro le
strisce blu. Ma i manifestanti sono solo 30” a firma Riccardo Meroni e sul
trafiletto “Nell’incontro con la giunta cambiano le carte in tavola” senza
firma ma presumibilmente dello stesso autore, pubblicati a pag. 20 della
Gazzetta della Martesana del 22 dicembre2014, dedicata a Vimodrone.
Nel merito:
1) I partecipanti al corteo
del 15 dicembre contro il Piano della Sosta, cui si riferisce l’articolo, erano
un centinaio e non trenta. Del resto basta fare un semplice calcolo: 12 file
da7/8 persone più due striscioni (4 persone) fanno una cifra oscillante da 88 a
100. Se Meroni si fosse presentato a inizio corteo, come ha fatto il suo
collega de “Il Giorno”, avrebbe constatato di persona e fornito una corretta
informazione sui partecipanti, evitando di pubblicare solo foto che si
riferiscono al presidio di fine corteo sotto al Comune, decimato dalla pioggia.
In questo modo, l’articolo sembra più una velina dell’ufficio stampa del comune
e si corre incontro a una pessima figura dal punto di vista professionale.
2) Nell’incontro con la
Giunta le carte in tavola non sono affatto cambiate. Scopo del corteo era
quello della gratuità per vimodronesi e lavoratori (bastava leggere il
volantino di indizione del corteo). Questi scopi sono stati ribaditi
nell’incontro, ma poiché erano già stati abbondantemente illustrati alla
Giunta, sia in sede di incontro con i sindacati, sia in sede di incontro con il
Comitato, la Giunta ne era abbondantemente e dettagliatamente informata, anche
se continua a fare orecchie da mercante. La delegazione unitaria del corteo ha
preferito dare più spazio e più enfasi ai problemi specifici dei lavoratori del
Redaelli (sosta a disco orario, ingresso da via Pascoli, mercato del
martedì).Senza rinunciare ovviamente a ribadire a fine incontro gli obbiettivi
complessivi. Da dove l’autore dell’articolo che peraltro non era presente
all’incontro, abbia dedotto che “siano state cambiate le carte in tavola” se
non da una velina della Giunta, non riusciamo a capirlo. Notizia peraltro falsa
o quantomeno parziale, circa gli argomenti trattati nell’incontro. Comprendiamo
che avere buoni rapporti con il “potere” facilita la vita e che spesso le
veline precostruite evitano la fatica di
scrivere un articolo, ma sentire anche l’altra campana nel merito degli
argomenti trattati nell’incontro e sulla veridicità delle dichiarazioni fatte
dalla Giunta non avrebbe certo fatto male alla liberta di stampa.
3) Sempre nel trafiletto, il
presidente del Comitato “Piano della Sosta? No grazie!” Mattia Murnigotti,
dichiara testualmente “Noi ci siamo dissociati dall’iniziativa fin dall’inizio,
il nostro non è un comitato politico, continuiamo la nostra battaglia senza
appartenere a nessuna fazione”. Libero il Murnigotti, noto esponente politico
dei Moderati per Vimodrone e quindi appartenente a una nota fazione politica,
di dissociarsi da se stesso, colto da uno di quegli attacchi schizofrenici di
finta antipolitica che adesso vanno tanto di moda. E pure corre l’obbligo di
precisare che il Comitato era stato invitato alla manifestazione. Nonostante le numerose
richieste provenienti da diversi suoi componenti perché si riunisse e prendesse
una posizione ufficiale di adesione al corteo, convocato sulle medesime parole
d’ordine del Comitato, lo stesso non è stato mai riunito dal presidente. Ora si
capisce il perché. Sia però ben chiaro che se la presenza dei lavoratori con le
bandiere delle organizzazioni sindacali Cub, Usb e Cgil, mette la puzza sotto
al nasino moderato (e quindi politicizzato) del Murnigotti, questa cosa
riguarda solo lui e non il Comitato. Non vi è alcuna autorizzazione a rilasciare
dichiarazioni a nome e per conto di altri componenti e al giornalista bastava, oltre che sentire il Murnigotti,
peraltro assente e ricercato appositamente,
sentire i numerosi
componenti presenti al corteo, oltre a quelli di Vimodrone
Futura. In questo modo sarebbe emerso un quadro veritiero e non parziale sulla
vicenda e un conseguente articolo professionalmente ineccepibile, cosa che
purtroppo non si verificata.
RSU dell’A.S.P. Golgi-Redaelli Cittadini vimodronesi partecipanti al corteo
Con richiesta di pubblicazione.
martedì 23 dicembre 2014
LE SOLITE MENZOGNE GIORNALISTICHE
TRATTO DALLA GAZZETTA DELLA MARTESANA:
il 15 Dicembre a Vimodrone si è svolta una manifestazione cittadina per protestare contro la delibera del Comune che prevedeva i parcheggi a pagamento ,su tutto il territorio, sia per i lavoratori che per i residenti.
il corteo , partito dall'Istituto Radaelli, si è mosso in direzione del Comune con l'approvazione di molti cittadini, arrivati davanti allo stesso , una delegazione è salita per " trattare" e cercare di fermare questo VERGOGNOSO tentativo da parte del Sindaco e della Giunta di fare cassa a danno dei cittadini.
dopo un paio di ore , mentre aspettavamo sotto la pioggia, la delegazione è scesa con purtroppo la solita risposta VALUTEREMO LE RICHIESTE E VI FAREMO SAPERE...ma cosa c'è da valutare?..non si deve fare punto.
tornando all'articolo del giornale è ovvio che il giornalista , per non far dare troppo peso alla notizia e fastidio al Sindaco ha sminuito l'evento e la manifestazione ma sono sicuro che i Vimodronesi sanno e capiranno qual'ora ci fosse ancora bisogno di " presidiare" il Comune.
UNITI SI VINCE...
SEMPRE PRONTO A LOTTARE FINO ALLA FINE
Matteo Moroni ( COORDINAMENTO ALLCA CUB LAVORATORI PIRELLI )
venerdì 19 dicembre 2014
ANSA.it
Piemonte
Amianto
alla Olivetti, chiesto rinvio a giudizio per 33 indagati
Tra
gli altri anche Carlo De Benedetti, Corrado Passera e Roberto Colaninno
La procura di Ivrea ha chiesto il rinvio a giudizio di 33
dei 39 indagati nell' inchiesta sulle morti per amianto alla Olivetti. Tra i
destinatari del provvedimento, firmato dai pm Laura Longo e Lorenzo Boscagli,
ci sono Carlo De Benedetti, Corrado Passera e Roberto Colaninno. Si procede per
omicidio colposo. Per altri cinque indagati, invece, è stata inoltrata al gip
la richiesta di archiviazione, mentre un sesto è deceduto nelle scorse
settimane.
Il rinvio a giudizio è stato chiesto anche nei confronti del
fratello di Carlo De Benedetti e dei figli, gli unici fino ad ora che hanno
presentato memorie difensive alla Procura di Ivrea. Per altri cinque indagati,
invece, è stata inoltrata al gip la richiesta di archiviazione, mentre un sesto
è deceduto nelle scorse settimane. Il tribunale fisserà nelle prossime
settimane l'udienza preliminare, con la citazione degli imputati e delle
persone offese. In quella sede potranno essere presentate le richieste di
costituzione di parte civile. I magistrati eporediesi procedono per lesioni e
omicidio colposo in relazione alle malattie, di sospetta origine professionale,
che colpirono una quindicina di lavoratori.
Carlo De Benedetti è interessato dall'indagine nella sua
qualità di amministratore delegato e presidente dell'Olivetti dal 1978 al 1996;
il fratello Franco come amministratore delegato dal 1978 al 1989, di
vicepresidente dal 1989 al 1992 e di consigliere di amministrazione fino al
1993; il figlio Rodolfo come consigliere di amministrazione dal 1990 al 1997;
l'ex ministro Corrado Passera come consigliere di amministrazione dal 1990 al
1996 e amministratore delegato dal 1992 al 1996. Colaninno, invece, è stato
amministratore delegato a partire dal 1996.
Archiviate posizioni marginali - "Il vaglio fatto dalla Procura della
Repubblica di Ivrea, alla luce delle memorie difensive presentate, non ha
consentito di effettuare una richiesta di archiviazione se non per posizioni
marginali". Il procuratore capo di Ivrea, Giuseppe Ferrando, commenta così
all'ANSA la richiesta di rinvio a giudizio avanzata nei confronti di 33 dei 39
indagati nell'inchiesta sulle morti per amianto alla Olivetti.
mercoledì 17 dicembre 2014
lunedì 15 dicembre 2014
mercoledì 10 dicembre 2014
sabato 6 dicembre 2014
Al fianco degli sfrattati e contro gli sgomberi!
CONTRO LE GUERRE TRA POVERI, PER TUTTI DIRITTO AL LAVORO, AL REDDITO, ALLA CASA
Giovedì' 4 dicembre 2014 P.zza S.Babila h 17:30
Corteo per il diritto all' abitare, contro sgomberi
Presidio in Piazza della Scala
Domenica 7 dicembre ore 15,00
Alla "prima" del Teatro alla Scala si affollano banchieri, potenti politici, i nuovi eroi di Renzi (padroni del "vapore", grandi evasori fiscali, bancarottieri).
Fuori del Teatro lavoratori, precari, disoccupati, cassintegrati, immigrati, che quotidianamente vengono sfrattati dalle case e dalle fabbriche e giovani in cerca di lavoro cui si promette lavoro solo se si tagliano diritti ai loro padri.
I nostri avversari di classe, dopo averci impoveriti, cercano di trascinarci in una guerra contro altri sfruttati: descrivono gli occupanti di case popolari come delinquenti, gente che ruba la casa a chi ne ha bisogno, cercando di addossare a chi occupa, ai più poveri, a chi è migrante, la responsabilità del degrado dei quartieri popolari. Dicono che chi occupa toglie un diritto, ma quanti diritti tolgono ALER e Comune, che lasciano 9700 case vuote, mentre le assegnazioni da gennaio a ottobre 2014 sono state poco più di 600?
L'occupazione cala da anni e invece di investire, ai giovani che non trovano lavoro spiegano che ciò avviene per colpa dei diritti e degli alti salari dei padri, della eccessiva spesa pubblica e tagliano le residue tutele come se poi per magia tutto ripartisse.
Il 4 e il 7 dicembre diremo no alla guerra fra i poveri e manifesteremo tutta la nostra rabbia contro le disuguaglianze che rendono i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, e sosterremo la lotta per un modello di sviluppo ecosostenibile fondato sui beni comuni, la ridistribuzione del reddito, il diritto al lavoro, alla casa alla salute, allo studio.
Contro gli sgomberi e la militarizzazione dei quartieri, per la regolarizzazione di tutti gli occupanti per necessità, per l' assegnazione immediata delle 9700 case popolari sfitte, contro la vendita degli alloggi popolari
Per il lavoro: attraverso investimenti pubblici per la bonifica dei siti inquinati, la messa in sicurezza del territorio, il risparmio energetico e la riduzione dell'orario di lavoro di 4 ore
Per il reddito: Aumento di salari e pensioni, diritto per tutti, compresi i migranti al reddito minimo di 1000€, alla salute, allo studio .
Milano dicembre 2014
Giovedì' 4 dicembre 2014 P.zza S.Babila h 17:30
Corteo per il diritto all' abitare, contro sgomberi
Presidio in Piazza della Scala
Domenica 7 dicembre ore 15,00
Alla "prima" del Teatro alla Scala si affollano banchieri, potenti politici, i nuovi eroi di Renzi (padroni del "vapore", grandi evasori fiscali, bancarottieri).
Fuori del Teatro lavoratori, precari, disoccupati, cassintegrati, immigrati, che quotidianamente vengono sfrattati dalle case e dalle fabbriche e giovani in cerca di lavoro cui si promette lavoro solo se si tagliano diritti ai loro padri.
I nostri avversari di classe, dopo averci impoveriti, cercano di trascinarci in una guerra contro altri sfruttati: descrivono gli occupanti di case popolari come delinquenti, gente che ruba la casa a chi ne ha bisogno, cercando di addossare a chi occupa, ai più poveri, a chi è migrante, la responsabilità del degrado dei quartieri popolari. Dicono che chi occupa toglie un diritto, ma quanti diritti tolgono ALER e Comune, che lasciano 9700 case vuote, mentre le assegnazioni da gennaio a ottobre 2014 sono state poco più di 600?
L'occupazione cala da anni e invece di investire, ai giovani che non trovano lavoro spiegano che ciò avviene per colpa dei diritti e degli alti salari dei padri, della eccessiva spesa pubblica e tagliano le residue tutele come se poi per magia tutto ripartisse.
Il 4 e il 7 dicembre diremo no alla guerra fra i poveri e manifesteremo tutta la nostra rabbia contro le disuguaglianze che rendono i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, e sosterremo la lotta per un modello di sviluppo ecosostenibile fondato sui beni comuni, la ridistribuzione del reddito, il diritto al lavoro, alla casa alla salute, allo studio.
Contro gli sgomberi e la militarizzazione dei quartieri, per la regolarizzazione di tutti gli occupanti per necessità, per l' assegnazione immediata delle 9700 case popolari sfitte, contro la vendita degli alloggi popolari
Per il lavoro: attraverso investimenti pubblici per la bonifica dei siti inquinati, la messa in sicurezza del territorio, il risparmio energetico e la riduzione dell'orario di lavoro di 4 ore
Per il reddito: Aumento di salari e pensioni, diritto per tutti, compresi i migranti al reddito minimo di 1000€, alla salute, allo studio .
Milano dicembre 2014
mercoledì 3 dicembre 2014
VERSO IL 12 DICEMBRE dal sito : IL SINDACATO E' UN' ALTRA COSA
Renzi è per la prima volta in difficoltà, la sua politica degli annunci non regge più sotto la spinta delle mobilitazioni e della condizione sociale che precipita. Questo è anche il risultato delle lotte di questi mesi contro il Jobs Act e la legge di stabilità.
Persino Squinzi, presidente di Confindustria non si aspettava tanti regali dal governo tutti insieme! Riduzione Irap alle imprese, libertà assoluta licenziamento, demansionamento e spionaggio sui lavoratori aumento tassazione tfr e previdenza complementare.
Anziché sostenere salari e pensioni e combattere la precarietà il governo in continuità con quelli precedenti non ha fatto altro che precarizzare e impoverire ancora di più il lavoro mettendo al centro l’impresa e i suoi bisogni.
Così la crisi non finisce mai!
In questi anni ci hanno raccontato che per il debito dovevamo sacrificare tutto: pensioni, salari, lavoro stabile, vita dignitosa, sanità e scuola pubblica. Poi sarebbe venuto il momento del benessere. La verità è che le loro politiche sono responsabili della crisi e la usano come pretesto il debito per cancellare ogni diritto e conquista sociale del lavoro.
Bisogna cambiare pagina!
La Cgil ha proclamato sciopero generale per il 12 dicembre. È in colpevole ritardo rispetto alla battaglia contro l’approvazione del Jobs Act. La piazza del 25 ottobre e il crescendo di mobilitazioni di questi mesi contro il governo Renzi meritavano ben più determinazione. Ma siamo ancora in tempo per provare a cambiare pagina. Bisogna però rompere con le politiche di queste anni, abbandonare ogni illusione concertativa e costruire un sindacato che sia davvero conflittuale, nella pratica e non soltanto nei proclami in televisione.
Bisogna dire basta alla moderazione e alla cosiddetta responsabilità grazie alle quali la Cgil non ha combattuto davvero l’aggressione al mondo del lavoro! Bisogna rompere con il sistema delle deroghe al CCNL e con il modello del 10 gennaio che impedisce le lotte.
Abbiamo bisogno di un sindacato democratico, conflittuale e indipendente.
Basta con i sindacalisti che cambiano casacca e da onorevoli votano contro il loro sindacato! Il voto di Epifani a favore del Jobs Act è una vergogna che può essere sanata solo se la Cgil rompe con Epifani e tutto il Pd. Serve un sindacato che sappia dire NO alle richieste delle aziende di ridurre salari e diritti!
Continuare le lotte, fino a imporre politiche diverse
Bisogna dare continuità alle lotte, fermarsi darebbe il segnale di una resa che non vogliamo. Costruiamo una mobilitazione senza precedenti, radicale e prolungata, che punti davvero a bloccare il paese e a rompere con le politiche d’austerità che pretendono la cancellazione del nostro modello sociale. A cominciare dal 3 dicembre, con il presidio sotto il Senato per contestare il voto sul Jobs Act.
Persino Squinzi, presidente di Confindustria non si aspettava tanti regali dal governo tutti insieme! Riduzione Irap alle imprese, libertà assoluta licenziamento, demansionamento e spionaggio sui lavoratori aumento tassazione tfr e previdenza complementare.
Anziché sostenere salari e pensioni e combattere la precarietà il governo in continuità con quelli precedenti non ha fatto altro che precarizzare e impoverire ancora di più il lavoro mettendo al centro l’impresa e i suoi bisogni.
Così la crisi non finisce mai!
In questi anni ci hanno raccontato che per il debito dovevamo sacrificare tutto: pensioni, salari, lavoro stabile, vita dignitosa, sanità e scuola pubblica. Poi sarebbe venuto il momento del benessere. La verità è che le loro politiche sono responsabili della crisi e la usano come pretesto il debito per cancellare ogni diritto e conquista sociale del lavoro.
Bisogna cambiare pagina!
La Cgil ha proclamato sciopero generale per il 12 dicembre. È in colpevole ritardo rispetto alla battaglia contro l’approvazione del Jobs Act. La piazza del 25 ottobre e il crescendo di mobilitazioni di questi mesi contro il governo Renzi meritavano ben più determinazione. Ma siamo ancora in tempo per provare a cambiare pagina. Bisogna però rompere con le politiche di queste anni, abbandonare ogni illusione concertativa e costruire un sindacato che sia davvero conflittuale, nella pratica e non soltanto nei proclami in televisione.
Bisogna dire basta alla moderazione e alla cosiddetta responsabilità grazie alle quali la Cgil non ha combattuto davvero l’aggressione al mondo del lavoro! Bisogna rompere con il sistema delle deroghe al CCNL e con il modello del 10 gennaio che impedisce le lotte.
Abbiamo bisogno di un sindacato democratico, conflittuale e indipendente.
Basta con i sindacalisti che cambiano casacca e da onorevoli votano contro il loro sindacato! Il voto di Epifani a favore del Jobs Act è una vergogna che può essere sanata solo se la Cgil rompe con Epifani e tutto il Pd. Serve un sindacato che sappia dire NO alle richieste delle aziende di ridurre salari e diritti!
Continuare le lotte, fino a imporre politiche diverse
Bisogna dare continuità alle lotte, fermarsi darebbe il segnale di una resa che non vogliamo. Costruiamo una mobilitazione senza precedenti, radicale e prolungata, che punti davvero a bloccare il paese e a rompere con le politiche d’austerità che pretendono la cancellazione del nostro modello sociale. A cominciare dal 3 dicembre, con il presidio sotto il Senato per contestare il voto sul Jobs Act.
Mandiamo a casa il governo Renzi!
OPPOSIZIONE CGIL
Il sindacato è un’altra cosa
martedì 2 dicembre 2014
DAL SITO IPASVI (Federazione Nazionale Infermieri ) Lavoro a turni
Secondo
alcuni studi chi lavora a turni, soprattutto se lavora spesso la notte, ha un
maggiore rischio di problemi di salute. E’ importante quindi non sottovalutare
la comparsa di piccoli disturbi e cercare di compensare il debito di sonno
causato dall’orario lavorativo notturno.
Con questa
Guida si vogliono suggerire alcuni comportamenti salutari. In particolare si
vuole rispondere ai seguenti quesiti:
1. Che cosa
si intende per lavoro a turni?
2. Quali
sono le ricadute del lavoro a turni sulla salute?
3. Come si
possono prevenire i disturbi del sonno?
4. Come si
può ridurre lo stress associato al lavoro a turni?
5. Come si
può ridurre il rischio di incidente sul lavoro nel turnista?
Che cosa si
intende per lavoro a turni?
Non esiste
una definizione univoca di lavoro a turni, ma in genere si intende:
- un orario
di lavoro diverso dalle classiche 8 ore giornaliere in orario compreso tra le 7
del mattino e le 7 di sera;
- un lavoro
nel quale un lavoratore sostituisce un collega nell’arco delle 24 ore;
- un lavoro
che prevede turni di notte e/o variazioni di orario nei diversi giorni della
settimana.
E' VERO CHE
NEGLI ULTIMI ANNI IL LAVORO A TURNI SI STA ESTENDENDO IN MOLTEPLICI SETTORI?
Quali sono le ricadute del lavoro a turni
sulla salute?
Alcuni studi
hanno trovato che il lavoro a turni, soprattutto se comprende turni notturni,
costituisce una condizione di stress per l’organismo perché va a sconvolgere il
normale ritmo del ciclo sonno/veglia causando conseguenze sulla salute più o
meno gravi.
Lavoro a
turni - disegno 1
In
particolare i lavoratori turnisti lamentano spesso:
-
stanchezza;
- disturbi
del sonno;
- problemi
digestivi;
- problemi
nei rapporti sociali e familiari.
Inoltre il
lavoro a turni può influire negativamente sulle performance, aumentando quindi
il rischio di errori e di incidenti sul lavoro.
E' VERO CHE
IL LAVORO A TURNI DESINCRONIZZA L’OROLOGIO BIOLOGICO ("RITMO
CIRCADIANO")?E' VERO CHE LE RICADUTE SULLA SALUTE RIGUARDANO SOLO LE
PERSONE CHE LAVORANO NEI TURNI DI NOTTE?E' VERO CHE QUASI TUTTI I LAVORATORI
TURNISTI SOFFRONO DI DISTURBI DEL SONNO?E' VERO CHE I LAVORATORI TURNISTI
SOFFRONO DI PROBLEMI DELLA DIGESTIONE?E' VERO CHE IL LAVORO A TURNI È ASSOCIATO
A UN MAGGIORE STRESS RISPETTO AL LAVORO CLASSICO?E' VERO CHE IL LAVORO A TURNI
PUÒ FAVORIRE L’OBESITÀ?
Come si possono prevenire i disturbi del
sonno?
Quasi tutte
le persone che lavorano in turni di notte soffre di disturbi del sonno più o
meno gravi. Per prevenire questi problemi bisogna fare in modo di rendere il
riposo pomeridiano continuativo, cercando di dormire complessivamente almeno
sei ore. A tal fine si consiglia di:
- dormire in
una stanza buia (eventualmente si possono usare le mascherine per gli occhi),
chiudendo le tapparelle o le ante;
- fare in
modo che non ci siano rumori, per esempio staccando il telefono, avvisando i
familiari e chiedendo loro di non disturbarvi;
- non
innervosirsi se non ci si riesce ad addormentare subito, considerate che
rimanere a letto distesi, anche se svegli, è utile per recuperare energie;
- adottare
strategie per rilassarsi e favorire l’addormentamento, per esempio fare una
doccia o un bagno rilassante prima di coricarsi, fare una passeggiata
rilassante, leggere un libro;
- evitare
l’uso di farmaci per dormire, salvo diverso consiglio del medico.
E' VERO CHE
NELLE 24 ORE PRIMA DEL TURNO OCCORRE INIZIARE A MODIFICARE LE PROPRIE ABITUDINI
PER ADATTARSI MEGLIO ALL’ORARIO DI LAVORO?E' VERO CHE I TURNI DI LAVORO POSSONO
ESSERE ORGANIZZATI IN MODO DA LIMITARE I PROBLEMI DI INSONNIA?
Come si può ridurre lo stress associato al
lavoro a turni?
Sembra che i
turnisti riescano ad abituarsi meglio alla condizione lavorativa se riescono a
recuperare bene il sonno perso e se sono sostenuti dalla famiglia. E’
importante quindi parlare con i propri familiari per spiegare le difficoltà
associate al lavoro a turni e far capire loro che è importante avere
collaborazione. Sembra inoltre che praticando attività fisica con regolarità e
seguendo una dieta sana si favorisca il regolare ritmo dell’organismo e si
riduca lo stress. Si consiglia quindi di:
- dedicare
almeno 30 minuti al giorno all’attività fisica;
- consumare
pasti regolari e assumere possibilmente cibi sani;
- ridurre il
consumo di alcol.
Lavoro a
turni - disegno 2
E' VERO CHE
LO STRESS ASSOCIATO AL LAVORO A TURNI PUÒ CAUSARE MALATTIE DI CUORE?E' VERO CHE
UNA BUONA ORGANIZZAZIONE DI VITA RAFFORZA I LEGAMI AFFETTIVI E RIDUCE LO
STRESS?
Come si può ridurre il rischio di incidente
nel turnista?
L’affaticamento,
la stanchezza e la perdita di concentrazione sono causa della maggior parte
degli incidenti sul lavoro. Tra le misure preventive suggerite per ridurre il
rischio di incidente e i problemi associati al lavoro a turni ci sono:
- ridurre il
più possibile il ricorso al lavoro notturno;
- evitare
turni di lavoro di 9-12 ore per impedire l’eccessivo affaticamento;
- non
fissare un inizio del turno troppo presto al mattino, in modo da ridurre la
perdita del sonno di fase REM;
- prevedere
un giorno di riposo dopo il turno di notte;
- limitare i
cambi di turno improvvisi;
- aumentare
i riposi compensativi in base ai turni notturni svolti.
E' VERO CHE
GUIDARE DOPO IL TURNO DI LAVORO (SPECIE SE NOTTURNO) AUMENTA IL RISCHIO DI
INCIDENTE?
VERO.
Mettersi
alla guida dopo un turno di lavoro notturno aumenta il rischio di incidente a
causa della stanchezza accumulata. Se non è possibile organizzare il rientro
con mezzi diversi dall’automobile si raccomanda di:
- guidare
con prudenza;
- evitare di
assumere alcolici durante o al termine del turno di lavoro;
- fermarsi,
se ci si sente molto stanchi, riposando per almeno un quarto d'ora.
domenica 30 novembre 2014
Lettera aperta alle donne del comitato IO HO L'ENDOMETRIOSI
CUB e comitato IO HO L'ENDOMETRIOSI - Volantinaggio informativo a Brescia |
Brescia, 29 novembre 2014
Care endine,
chiedo ospitalità sul vostro blog perché oggi è una giornata importante. Per la prima volta, dopo undici mesi di collaborazione, abbiamo svolto la nostra prima iniziativa insieme: un volantinaggio informativo con gazebo e banchetto nel pieno centro di Brescia.
Un gruppo di persone, niente di più. Ma cos'è che univa questo gruppo?
L'organizzazione sindacale o sociale? No. C'era il vostro comitato come il nostro sindacato.
Il genere? No. C'erano donne come uomini.
Allora il mestiere? Nemmeno. Si va dagli operai di fabbrica alle cassiere dei supermercati, passando per pensionati e disoccupati.
Il filo comune che univa questo gruppo era l'impegno sociale, la voglia di fare del bene per gli altri, l'idea di agire insieme per migliorare le cose.
Volantinare poi è sempre un'esperienza interessante, specialmente per chi non lo ha mai fatto. Quanti volantini avete preso in mano nella vostra vita? Quanti ne avete realmente letti con interesse? Beh... passare dall'altra parte del volantino implica un lavoro non indifferente. Al netto della fase redazionale, dove bisogna scriverlo, impaginarlo e formattarlo nel modo più breve, efficace e accattivante possibile, pensando ai potenziali lettori che dovranno riceverlo, rimane la fase pratica sul campo: distribuirlo. Ed è qui che arriva il meglio, il volantinaggio è al contempo gratificante, divertente e mortificante.
Gratificante ogni volta che qualcuno prende il volantino e ti ringrazia, magari si ferma a parlare e chiede informazioni.
Divertente quando come oggi, una signora anziana viene decisa al nostro banchetto a chiedere di firmare per abbassare le tasse:
- "No, guardi signora, questa è una campagna informativa sull'endometriosi..."
- "Si ma io devo firmare per abbassare le tasse!"
- "Signora se proprio non può farne a meno ci metta una firma per abbassare le tasse... ma non le garantiamo niente..."
Mortificante quando ti trovi davanti a persone che non ti degnano nemmeno di uno sguardo o ti guardano schifati, dove devi spiegare che i volantini non mordono, oppure che se il volantino parla di endometriosi quest'ultima non si contrae per lettura.
Ho conosciuto voi e le vostre storie su questo blog, mi sono sempre chiesto come sia possibile far fronte a sofferenze come le vostre, ho imparato da voi che coraggio, forza e determinazione sono qualità che portano la gonna. Sono convinto, ora più che mai, che di solo web non ne usciamo più: C'è un gran bisogno di uscire di casa per raggiungere il mondo fuori e dire che noi esistiamo, siamo reali, che l'endometriosi esiste per le donne, per la società, per gli uomini (le loro mogli, le loro figlie, le loro sorelle...), per il lavoro e per lo Stato (costi sociali e perdita di produttività).
Questo è il momento di unirci, non di dividerci. Non è importante dividersi su quale sia la cura migliore, il percorso più corretto, il medico più bravo o l'ospedale più attrezzato. Non si può standardizzare la soggettività: è una contraddizione in termini. Ci si può confrontare per scambiarsi informazioni, certo; ma il confronto non deve diventare scontro. Non siamo medici, siamo cittadini, e da cittadini possiamo e dobbiamo convergere su poche parole d'ordine: informazione, prevenzione, rivendicazione.
La bestia con la quale convivete e combattete da anni è forte, ma noi insieme possiamo indebolirla sempre di più. Con il nostro impegno di oggi quei 7/10 anni in media tra sintomi e diagnosi un domani potranno diminuire, possiamo oggi lottare per rompere il silenzio e l'ignoranza su questa malattia per evitare che le ragazze di domani si sentano dare delle malate immaginarie, possiamo oggi lottare affinché le istituzioni aiutino le donne che soffrono con esenzioni, permessi e collocamenti mirati.
Forse il più bel senso di questa giornata bresciana è emerso alla fine, quando ci sono stati scambi di numeri telefonici, simpatie e affinità nate, progetti per le prossime iniziative insieme, voglia di fare di più e in di più.
Per ragioni anatomiche, non posso comprendere il vostro dolore, ma considerate me e le meravigliose persone con cui condivido quotidianamente il mio impegno sociale parte integrante del vostro comitato e partecipanti attivi al vostro fianco in questa dura e sacrosanta battaglia.
Un abbraccio sincero
Diego Bossi
sabato 29 novembre 2014
Comunicato stampa ALLCA-CUB e COMITATO IO HO L'ENDOMETRIOSI
Milano, venerdì 28 novembre 2014
COMUNICATO STAMPA
L’endometriosi
è una malattia cronica e invalidante che colpisce tre milioni di donne in
Italia.
Questa
patologia è originata dalla presenza anomala di tessuto della parete interna
dell’utero in altri organi, causando sanguinamenti, infiammazioni, infertilità
(40% dei casi) e dolori invalidanti.
Dai
primi sintomi alla diagnosi passano in media 7-10 anni, dove ogni donna malata sente
minimizzare il suo dolore, derubricarlo a “normali” dolori mestruali.
Non
meno importanti sono gli effetti dell’endometriosi nella sfera sociale,
psicologica e lavorativa delle donne, vittime di emarginazioni,
discriminazioni, mobbing e licenziamenti.
Sabato 29 novembre, dalle 15.00 alle
18.00, in corso Zanardelli a Brescia (vicino al teatro grande), Confederazione
Unitaria di Base e Comitato “Io ho l’endometriosi” allestiranno un banchetto
informativo per diffondere la più ampia
conoscenza su questa patologia, fornire supporto alle donne malate e
rivendicare diritti come il collocamento mirato e un codice di esenzione al
pagamento di cure ed esami altrimenti costosissimi.
Allca-Cub
Comitato Io ho l’endometriosi
venerdì 28 novembre 2014
Lo sciopero che ancora non c’è stato
ARTICOLO PRESO DAL SITO
connessioniprecarie.org
Il 14 novembre è stato una novità. In primo luogo, quella
giornata ha avuto la capacità di riportare il lavoro al centro
del discorso politico dei movimenti. Non si è trattato soltanto
dell’ennesima denuncia delle condizioni oggettive di
precarietà e impoverimento, ma anche e soprattutto del
punto di partenza di un processo di organizzazione che
guarda allo sciopero come pratica e progetto per
accumulare forza. In secondo luogo, il 14 novembre
stabilisce l’apertura di uno spazio politico le cui potenzialità
non stanno tanto nella capacità di mediare tra diverse realtà
in vista di un singolo momento di protesta, ma nella pretesa
di definire un percorso politico autonomo, credibile ed
espansivo, affrontando in comune un problema, un discorso
e le corrispondenti pratiche. Tra questi due piani c’è un
legame necessario. Quest’apertura è stata possibile
proprio perché è stata riconosciuta la necessità di
produrre una rottura politica sul terreno del lavoro.
Il radicamento sociale del percorso che ha portato al 14
novembre non si misura perciò sulla sua capacità di dare
risposte immediate o rappresentazione a un insieme di
«bisogni» altrimenti inespressi, o di unire lotte e vertenze
frammentate e sconnesse, ma su quella di stabilire un
piano di iniziativa comune per tutti coloro che ogni giorno, in modi diversi, fanno esperienza della
precarietà e vogliono liberarsene. Per questo, il successo del 14 novembre non sta esclusivamente nei numeri
che abbiamo visto nelle piazze, che pure sono stati rilevanti e hanno permesso di ottenere una visibilità
finalmente liberata dalla retorica dell’assedio e dal protagonismo dei militanti. Il successo del 14 novembre si deve
misurare sulla capacità di mantenere aperto lo spazio politico che lo ha prodotto e sulla coerenza nell’organizzare
lo sciopero come pratica politica in grado di interrompere in maniera significativa il dominio del capitale. Al centro
non c’è dunque la pretesa di liberare spazi in cui poter organizzare la propria socialità e la propria vita al di fuori
dei vincoli sociali del capitale. Si tratta piuttosto di produrre livelli organizzativi in grado di interrompere con
continuità un dominio altrimenti incontrastato. Lo sciopero, cioè, stabilisce una pratica di potere e non si
limita a indicare il polo di una negazione. Per questo rivendica una priorità esclusiva, che si impone nel
momento in cui supera gli steccati della mediazione e mostra possibilità impensate. In questi termini, lo sciopero
è decisivo perfino prima di portare a termine la sua parabola sociale e generale.
Nonostante la novità del 14 novembre, infatti, lo sciopero sociale generale non c’è ancora stato. Siamo
riusciti a costruire un’anteprima di quello che vorremmo che fosse, individuando con una certa approssimazione
le condizioni grazie alle quali esso potrebbe davvero esserci. L’anteprima è stata così convincente da spingere il
più grande sindacato confederale a dichiarare lo sciopero generale. Ora che persino la Cgil ha registrato la fine
della concertazione, si tratta di stabilire le pratiche comuni che possono adottare operai, migranti e precarie,
contrapponendole al Jobs Act e alle politiche europee sul lavoro. Opporsi al regime del salario e al governo della
mobilità significa porsi il problema di una rottura politica sul lavoro, ovvero di farla finita con quelle politiche che
attraverso il lavoro stabiliscono la subalternità di milioni di persone. È giunto il tempo di abbandonare le
rappresentazioni rassicuranti e minoritarie delle piazze separate che pretendono di parlare ad altre piazze
più o meno lontane, che non sono in realtà mai state raggiunte. Allo stesso tempo dobbiamo sapere che non
sarà la dichiarazione dello sciopero generale a riportare indietro l’orologio del sindacato confederale. La
questione da porsi è come rivolgersi direttamente ai lavoratori in sciopero, sapendo che il 14 novembre parlava
anche a loro. La scommessa è quella di fare dello sciopero della Cgil un momento del processo che rende
lo sciopero sociale un reale sciopero generale.
Lo sciopero generale, com’è evidente, non è per noi l’anticamera della rivoluzione, ma nemmeno il presupposto
per aprire chissà quali mediazioni con il sistema politico. Fuori da ogni mitologia, rendere generale lo sciopero
sociale significa rivelarne il carattere pienamente politico, ovvero farne un momento di rottura del
comando capitalistico sul lavoro. Lo sciopero generale non può essere l’unione di mille debolezze e non può
nemmeno confederare condizioni lavorative che hanno spesso pochissimo in comune. Queste differenze – che
vanno dalle condizioni contrattuali a quelle imposte dalle specifiche modalità di erogazione del lavoro (a casa, alla
catena di montaggio, dietro una cattedra, davanti a un pc, accanto al letto di un anziano), dalla differenza
sessuale a quella imposta dal permesso di soggiorno – devono piuttosto essere messe in comunicazione e
organizzate a partire dalla loro specificità. La posta in gioco è quindi quella di «organizzare l’inorganizzabile» e di
creare le condizioni affinché la pratica dello sciopero non sia più, e non possa essere, una prerogativa dei
lavoratori dipendenti o dei sindacati, ma diventi una pratica politica possibile per quanti sono stati
sistematicamente isolati e subordinati anche attraverso la moltiplicazione dei limiti, formali e informali, alla loro
possibilità di alzare la testa e incrociare le braccia. Significa riconquistare un terreno di scontro quotidiano così
come quotidiano è lo sfruttamento globale del lavoro precarizzato. Quindi uno sciopero generale oggi non può
non porsi il problema della dimensione transnazionale che deve progressivamente assumere. Non c’è
sciopero sociale generale che possa limitarsi al cortile di casa sua, che non debba porsi il problema dei
collegamenti transnazionali che ogni subordinazione rivela. Ogni sciopero che si voglia sociale e generale
deve rivolgersi allo stesso tempo contro il regime del salario e contro il governo della mobilità . Il
problema non è tanto di esportare sul piano europeo un percorso che in Italia sta avendo una certa rilevanza. Si
tratta piuttosto di stabilire un piano di comunicazione e continuità con i movimenti europei , sapendo che il
mutamento di dimensione serve anche calibrare in maniera più precisa ciò che stiamo facendo in Italia. Il
governo della mobilità funziona secondo regole che divengono pienamente visibili solo allargando lo
sguardo fuori dai confini nazionali.
Realizzare appieno ciò che abbiamo intravisto il 14 novembre, a partire dalla sua capacità di scoperchiare tanto
la condizione quanto le pretese di organizzazione e di lotta di un corpo del lavoro frammentato e composito,
significa pensare un discorso e delle pratiche all’altezza di una dimensione industriale diffusa e mobile,
cioè di un comando sul lavoro che travalica tutti i confini un tempo stabili – quelli nazionali e quelli del
luogo di lavoro, quelli tra la fabbrica e la metropoli, quelli tra lavoro manuale e intellettuale, quelli tra lavoro e non
lavoro, quelli tra le diverse ‘categorie’ – per diventare la vera cifra della società globale . Parlare di «sciopero
sociale», soprattutto dopo il 14 novembre, non significa inventarsi forme ‘nuove’ di sciopero che rischiano,
malgrado ogni intenzione in senso contrario, tanto di eludere il problema dello sciopero quanto di oscurare le
diverse figure della «fabbrica della precarietà». Parlare di «sciopero sociale generale» significa interrogarsi, da
qui in avanti, su come creare le condizioni per mettere in comunicazione e organizzare quanti sono ogni giorno
soggetti – in modi anche radicalmente diversi – al regime del salario. Per diventare davvero generale lo sciopero
sociale può solo riconoscere le differenze che segnano l’esistenza di milioni di operai, migranti, precarie. Nel
momento in cui la precarietà diviene la condizione globale del lavoro, solo la costruzione dello sciopero
come pratica comune ma differenziata può rendere generale lo sciopero sociale.
Di fronte a queste sfide, definire il ruolo dei laboratori per lo sciopero sociale è tanto difficile quanto
cruciale. Lo rende difficile, in primo luogo, la loro composizione, non tanto perché si pone e si porrà il problema
di conciliare realtà con discorsi e percorsi differenti, ma perché lì il rapporto tra sindacato e movimenti non può
che determinare una tensione che deve essere resa produttiva. La lezione fondamentale della logistica è che i
movimenti non possono sostituirsi al sindacato. Come dimostra il fallimento di ogni tentativo che negli ultimi anni
sia andato in questa direzione, e come dimostrano le diverse esperienze di «organizzazione dell’inorganizzabile»
portate avanti non solo in Italia (dai cleaners londinesi ai fast food workers di New York alle lavoratrici a domicilio
in Pakistan, ma prima ancora a Oakland), almeno in un primo momento il sindacato è una struttura insostituibile
per queste lotte impossibili. Non si tratta di negare i limiti della forma sindacale, ma di riconoscere che il
sindacato è per i lavoratori una tattica fondamentale di conflitto. Si tratta però di una tattica che non
esaurisce la sfida dell’organizzazione: essa è possibile all’interno di segmenti omogenei, proprio perché il
lavoro è settorializzato, proprio perché è governato da un sistema di leggi – civili e di mercato – ben specifico, e
può quindi essere parte di una battaglia di posizione per scompaginare i rapporti di forza all’interno dei luoghi di
lavoro. D’altra parte, l’organizzazione non può esaurirsi nel supporto esterno dei «solidali» ai lavoratori in lotta né
può significare diventare i nuovi sindacati per realizzare le forme «altre» di (non)sciopero. Si tratta piuttosto di
allargare lo spazio dello sciopero, inteso come espressione collettiva di indisponibilità alla
subordinazione. I laboratori dello sciopero sociale non dovrebbero essere i luoghi dove si costruisce la
mediazione tra i diversi modelli di vertenze, ma dove si sperimenta l’organizzazione di specifiche lotte sul lavoro
pensando al contempo un piano organizzativo che non sia confinato solo al lavoro. Già ora essi non sono i
«parlamentini» dove si raggiunge la mediazione tra gruppi diversi o tra movimenti e sindacati. I laboratori per lo
sciopero sociale sono lo spazio dove la rottura politica sul lavoro viene resa praticabile. Si tratta di
costruire al loro interno la fine di una subordinazione quotidiana e opprimente che tutti coloro che sono costretti a
lavorare riconoscono senza alcuna difficoltà. Ciò non significa che il lavoro possa tornare ad avere la centralità
politica che aveva un tempo. Non stiamo sostenendo alcun neolavorismo. Pensiamo solamente che la precarietà
globale ha reso evidente che il rifiuto del lavoro non libera dallo sfruttamento.
Liberarsi dallo sfruttamento impone di non chiudere gli occhi sui luoghi dove esso matura . Per affinare lo
sguardo su questi luoghi sono necessari laboratori dove assieme all’iniziativa venga prodotto anche il discorso
che la deve sostenere. Se riconosciamo che il 14 novembre è stato una novità, dobbiamo anche ammettere che
non sarà più tale se si ripeterà uguale a se stesso. La necessità di individuare ulteriori momenti di piazza – più o
meno legati alle agende parlamentari e agli iter di approvazione delle riforme sul lavoro – è per molti versi
necessaria, nella prospettiva di mantenere viva l’attenzione sul progetto e non disperdere le forze che il 14
abbiamo portato in piazza, ma rischia anche di essere una trappola che ci condanna all’inseguimento di
scadenze che non siamo ancora nella condizione di determinare. Affermare che è tempo di sciopero sociale
significa anche registrare che lo sciopero sociale ha bisogno del suo tempo. Bisogna avere il coraggio di
fare due passi indietro rispetto alle pratiche usuali di movimento per poterne poi fare uno in avanti verso
lo sciopero sociale generale.
connessioniprecarie.org
Il 14 novembre è stato una novità. In primo luogo, quella
giornata ha avuto la capacità di riportare il lavoro al centro
del discorso politico dei movimenti. Non si è trattato soltanto
dell’ennesima denuncia delle condizioni oggettive di
precarietà e impoverimento, ma anche e soprattutto del
punto di partenza di un processo di organizzazione che
guarda allo sciopero come pratica e progetto per
accumulare forza. In secondo luogo, il 14 novembre
stabilisce l’apertura di uno spazio politico le cui potenzialità
non stanno tanto nella capacità di mediare tra diverse realtà
in vista di un singolo momento di protesta, ma nella pretesa
di definire un percorso politico autonomo, credibile ed
espansivo, affrontando in comune un problema, un discorso
e le corrispondenti pratiche. Tra questi due piani c’è un
legame necessario. Quest’apertura è stata possibile
proprio perché è stata riconosciuta la necessità di
produrre una rottura politica sul terreno del lavoro.
Il radicamento sociale del percorso che ha portato al 14
novembre non si misura perciò sulla sua capacità di dare
risposte immediate o rappresentazione a un insieme di
«bisogni» altrimenti inespressi, o di unire lotte e vertenze
frammentate e sconnesse, ma su quella di stabilire un
piano di iniziativa comune per tutti coloro che ogni giorno, in modi diversi, fanno esperienza della
precarietà e vogliono liberarsene. Per questo, il successo del 14 novembre non sta esclusivamente nei numeri
che abbiamo visto nelle piazze, che pure sono stati rilevanti e hanno permesso di ottenere una visibilità
finalmente liberata dalla retorica dell’assedio e dal protagonismo dei militanti. Il successo del 14 novembre si deve
misurare sulla capacità di mantenere aperto lo spazio politico che lo ha prodotto e sulla coerenza nell’organizzare
lo sciopero come pratica politica in grado di interrompere in maniera significativa il dominio del capitale. Al centro
non c’è dunque la pretesa di liberare spazi in cui poter organizzare la propria socialità e la propria vita al di fuori
dei vincoli sociali del capitale. Si tratta piuttosto di produrre livelli organizzativi in grado di interrompere con
continuità un dominio altrimenti incontrastato. Lo sciopero, cioè, stabilisce una pratica di potere e non si
limita a indicare il polo di una negazione. Per questo rivendica una priorità esclusiva, che si impone nel
momento in cui supera gli steccati della mediazione e mostra possibilità impensate. In questi termini, lo sciopero
è decisivo perfino prima di portare a termine la sua parabola sociale e generale.
Nonostante la novità del 14 novembre, infatti, lo sciopero sociale generale non c’è ancora stato. Siamo
riusciti a costruire un’anteprima di quello che vorremmo che fosse, individuando con una certa approssimazione
le condizioni grazie alle quali esso potrebbe davvero esserci. L’anteprima è stata così convincente da spingere il
più grande sindacato confederale a dichiarare lo sciopero generale. Ora che persino la Cgil ha registrato la fine
della concertazione, si tratta di stabilire le pratiche comuni che possono adottare operai, migranti e precarie,
contrapponendole al Jobs Act e alle politiche europee sul lavoro. Opporsi al regime del salario e al governo della
mobilità significa porsi il problema di una rottura politica sul lavoro, ovvero di farla finita con quelle politiche che
attraverso il lavoro stabiliscono la subalternità di milioni di persone. È giunto il tempo di abbandonare le
rappresentazioni rassicuranti e minoritarie delle piazze separate che pretendono di parlare ad altre piazze
più o meno lontane, che non sono in realtà mai state raggiunte. Allo stesso tempo dobbiamo sapere che non
sarà la dichiarazione dello sciopero generale a riportare indietro l’orologio del sindacato confederale. La
questione da porsi è come rivolgersi direttamente ai lavoratori in sciopero, sapendo che il 14 novembre parlava
anche a loro. La scommessa è quella di fare dello sciopero della Cgil un momento del processo che rende
lo sciopero sociale un reale sciopero generale.
Lo sciopero generale, com’è evidente, non è per noi l’anticamera della rivoluzione, ma nemmeno il presupposto
per aprire chissà quali mediazioni con il sistema politico. Fuori da ogni mitologia, rendere generale lo sciopero
sociale significa rivelarne il carattere pienamente politico, ovvero farne un momento di rottura del
comando capitalistico sul lavoro. Lo sciopero generale non può essere l’unione di mille debolezze e non può
nemmeno confederare condizioni lavorative che hanno spesso pochissimo in comune. Queste differenze – che
vanno dalle condizioni contrattuali a quelle imposte dalle specifiche modalità di erogazione del lavoro (a casa, alla
catena di montaggio, dietro una cattedra, davanti a un pc, accanto al letto di un anziano), dalla differenza
sessuale a quella imposta dal permesso di soggiorno – devono piuttosto essere messe in comunicazione e
organizzate a partire dalla loro specificità. La posta in gioco è quindi quella di «organizzare l’inorganizzabile» e di
creare le condizioni affinché la pratica dello sciopero non sia più, e non possa essere, una prerogativa dei
lavoratori dipendenti o dei sindacati, ma diventi una pratica politica possibile per quanti sono stati
sistematicamente isolati e subordinati anche attraverso la moltiplicazione dei limiti, formali e informali, alla loro
possibilità di alzare la testa e incrociare le braccia. Significa riconquistare un terreno di scontro quotidiano così
come quotidiano è lo sfruttamento globale del lavoro precarizzato. Quindi uno sciopero generale oggi non può
non porsi il problema della dimensione transnazionale che deve progressivamente assumere. Non c’è
sciopero sociale generale che possa limitarsi al cortile di casa sua, che non debba porsi il problema dei
collegamenti transnazionali che ogni subordinazione rivela. Ogni sciopero che si voglia sociale e generale
deve rivolgersi allo stesso tempo contro il regime del salario e contro il governo della mobilità . Il
problema non è tanto di esportare sul piano europeo un percorso che in Italia sta avendo una certa rilevanza. Si
tratta piuttosto di stabilire un piano di comunicazione e continuità con i movimenti europei , sapendo che il
mutamento di dimensione serve anche calibrare in maniera più precisa ciò che stiamo facendo in Italia. Il
governo della mobilità funziona secondo regole che divengono pienamente visibili solo allargando lo
sguardo fuori dai confini nazionali.
Realizzare appieno ciò che abbiamo intravisto il 14 novembre, a partire dalla sua capacità di scoperchiare tanto
la condizione quanto le pretese di organizzazione e di lotta di un corpo del lavoro frammentato e composito,
significa pensare un discorso e delle pratiche all’altezza di una dimensione industriale diffusa e mobile,
cioè di un comando sul lavoro che travalica tutti i confini un tempo stabili – quelli nazionali e quelli del
luogo di lavoro, quelli tra la fabbrica e la metropoli, quelli tra lavoro manuale e intellettuale, quelli tra lavoro e non
lavoro, quelli tra le diverse ‘categorie’ – per diventare la vera cifra della società globale . Parlare di «sciopero
sociale», soprattutto dopo il 14 novembre, non significa inventarsi forme ‘nuove’ di sciopero che rischiano,
malgrado ogni intenzione in senso contrario, tanto di eludere il problema dello sciopero quanto di oscurare le
diverse figure della «fabbrica della precarietà». Parlare di «sciopero sociale generale» significa interrogarsi, da
qui in avanti, su come creare le condizioni per mettere in comunicazione e organizzare quanti sono ogni giorno
soggetti – in modi anche radicalmente diversi – al regime del salario. Per diventare davvero generale lo sciopero
sociale può solo riconoscere le differenze che segnano l’esistenza di milioni di operai, migranti, precarie. Nel
momento in cui la precarietà diviene la condizione globale del lavoro, solo la costruzione dello sciopero
come pratica comune ma differenziata può rendere generale lo sciopero sociale.
Di fronte a queste sfide, definire il ruolo dei laboratori per lo sciopero sociale è tanto difficile quanto
cruciale. Lo rende difficile, in primo luogo, la loro composizione, non tanto perché si pone e si porrà il problema
di conciliare realtà con discorsi e percorsi differenti, ma perché lì il rapporto tra sindacato e movimenti non può
che determinare una tensione che deve essere resa produttiva. La lezione fondamentale della logistica è che i
movimenti non possono sostituirsi al sindacato. Come dimostra il fallimento di ogni tentativo che negli ultimi anni
sia andato in questa direzione, e come dimostrano le diverse esperienze di «organizzazione dell’inorganizzabile»
portate avanti non solo in Italia (dai cleaners londinesi ai fast food workers di New York alle lavoratrici a domicilio
in Pakistan, ma prima ancora a Oakland), almeno in un primo momento il sindacato è una struttura insostituibile
per queste lotte impossibili. Non si tratta di negare i limiti della forma sindacale, ma di riconoscere che il
sindacato è per i lavoratori una tattica fondamentale di conflitto. Si tratta però di una tattica che non
esaurisce la sfida dell’organizzazione: essa è possibile all’interno di segmenti omogenei, proprio perché il
lavoro è settorializzato, proprio perché è governato da un sistema di leggi – civili e di mercato – ben specifico, e
può quindi essere parte di una battaglia di posizione per scompaginare i rapporti di forza all’interno dei luoghi di
lavoro. D’altra parte, l’organizzazione non può esaurirsi nel supporto esterno dei «solidali» ai lavoratori in lotta né
può significare diventare i nuovi sindacati per realizzare le forme «altre» di (non)sciopero. Si tratta piuttosto di
allargare lo spazio dello sciopero, inteso come espressione collettiva di indisponibilità alla
subordinazione. I laboratori dello sciopero sociale non dovrebbero essere i luoghi dove si costruisce la
mediazione tra i diversi modelli di vertenze, ma dove si sperimenta l’organizzazione di specifiche lotte sul lavoro
pensando al contempo un piano organizzativo che non sia confinato solo al lavoro. Già ora essi non sono i
«parlamentini» dove si raggiunge la mediazione tra gruppi diversi o tra movimenti e sindacati. I laboratori per lo
sciopero sociale sono lo spazio dove la rottura politica sul lavoro viene resa praticabile. Si tratta di
costruire al loro interno la fine di una subordinazione quotidiana e opprimente che tutti coloro che sono costretti a
lavorare riconoscono senza alcuna difficoltà. Ciò non significa che il lavoro possa tornare ad avere la centralità
politica che aveva un tempo. Non stiamo sostenendo alcun neolavorismo. Pensiamo solamente che la precarietà
globale ha reso evidente che il rifiuto del lavoro non libera dallo sfruttamento.
Liberarsi dallo sfruttamento impone di non chiudere gli occhi sui luoghi dove esso matura . Per affinare lo
sguardo su questi luoghi sono necessari laboratori dove assieme all’iniziativa venga prodotto anche il discorso
che la deve sostenere. Se riconosciamo che il 14 novembre è stato una novità, dobbiamo anche ammettere che
non sarà più tale se si ripeterà uguale a se stesso. La necessità di individuare ulteriori momenti di piazza – più o
meno legati alle agende parlamentari e agli iter di approvazione delle riforme sul lavoro – è per molti versi
necessaria, nella prospettiva di mantenere viva l’attenzione sul progetto e non disperdere le forze che il 14
abbiamo portato in piazza, ma rischia anche di essere una trappola che ci condanna all’inseguimento di
scadenze che non siamo ancora nella condizione di determinare. Affermare che è tempo di sciopero sociale
significa anche registrare che lo sciopero sociale ha bisogno del suo tempo. Bisogna avere il coraggio di
fare due passi indietro rispetto alle pratiche usuali di movimento per poterne poi fare uno in avanti verso
lo sciopero sociale generale.
Tasso di disoccupazione al nuovo record del 13,2%, tra i giovani al 43,3%
E'
il maggior balzo dell'Eurozona. Occupati in calo di 55mila unità tra settembre
e ottobre, mentre sono stabili su anno e in crescita nel complesso del
trimestre. Renzi: "Con noi 100mila in più". Le persone senza lavoro
sono cresciute di 286mila nell'arco di dodici mesi. I disoccupati tra i 15 e i
24 anni sono 708 mila
MILANO -
Mentre il Ministero del Lavoro rilascia dati improntati all'ottimismo, con la
progressione dei contratti a tempo indeterminato che a detta del dicastero
indica la bontà dei provvedimenti fin qui presi, dall'Istat arrivano nuovi
segnali allarmanti sul tasso di disoccupazione, che a ottobre è stimato al
13,2%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,0
punti nei dodici mesi. Un risultato frutto da una parte dell'incremento seppur
lieve della forza lavoro e dall'altra del calo delle persone occupate.
Rilevazioni alle quali il premier Renzi reagisce così da Catania: "Il
tasso di disoccupazione ci preoccupa, ma guardando i numeri, gli occupati
stanno crescendo. Da quando ci siamo noi ci sono più di 100 mila posti di
lavoro in più".
Il
riferimento ai 'posti di lavoro' è ambiguo, perché a guardare le serie storiche
dell'Istat sugli 'occupati' il conto è diverso. A febbraio del 2014 c'erano 22
milioni e 323 mila occupati, passati poi a 22 milioni e 405 mila a marzo (il
governo è incarica da fine febbraio). Ora siamo a quota 22 milioni e 374 mila.
In valore assoluto, l'Istat rileva che gli occupati di ottobre sono scesi
rispetto a settembre di 55 mila unità (stabili su base annua). In aumento i
disoccupati, pari a 3 milioni e 410 mila persone, che fanno in un mese 90 mila
unità in più (+2,7%) in un mese, mentre rispetto a ottobre 2013 sono incrementati
di 286 mila unità. L'incremento sensibile e positivo è quello della forza
lavoro, salita di oltre 200mila unità sul febbraio scorso: significa che più
gente è attiva e in cerca, segnale di "risveglio" per il premier.
I
miglioramenti sono sensibili e verificati dall'Istat se si guardano i dati sul
terzo trimestre, durante il quale torna a crescere il numero di occupati
(+0,5%, pari a 122.000 unità in un anno), dovuto ad un nuovo aumento nel Nord
(+0,4%, pari a 47.000 unità) e nel Centro (+2,1%, pari a 98.000 occupati) e al
rallentamento della caduta nel Mezzogiorno (-0,4%, pari a -23.000 unità).
Tornando al
tasso di senza lavoro, si tratta del massimo storico: il valore più alto sia
dall'inizio delle serie mensili, gennaio 2004, sia delle trimestrali, ovvero
dal 1977 (ben 37 anni fa). Una notizia che coglie di sorpresa gli analisti: in
mattinata da Intesa Sanpaolo, per esempio, si aspettavano che "dopo aver
oscillato tra 12,3% e 12,6% da maggio a settembre", il tasso sarebbe
tornato "a calare a ottobre, al 12,5%. L'indagine del mese scorso
segnalava un incoraggiante aumento di occupati, ma il rischio sulla previsione
è aumentato dall'accentuata volatilità nelle variazioni mensili delle forze di
lavoro".
Per quanto
riguarda il tasso di disoccupazione giovanile, questo è salito al 43,3%, in
aumento di 0,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,9 punti nel
confronto tendenziale. Si tratta - spiega l'Istituto di statistica - della
quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro. I
disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 708 mila. Se si guarda l'intera
popolazione nella fascia giovanile, l'incidenza dei senza lavoro è dell'11,9%,
in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,7 punti
su base annua.
Il dato
dell'Italia di ottobre, secondo Eurostat, è il maggior balzo dell'Eurozona a 18
membri: nella media dell'area della moneta unica e dell'Ue la disoccupazione a
ottobre è rimasta invece sostanzialmente stabile all'11,5% e al 10%.
L'allarme
occupazionale - detto per inciso - ha contagiato pure l'Istituto di statistica,
dove non si è tenuta la consueta presentazione dei dati per lo sciopero dei
precari in attesa di conferma dei loro contratti.
La buona
notizia viene dal numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni, che
diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-32 mila) e del 2,5%
rispetto a dodici mesi prima (-365 mila). Il tasso di inattività si attesta al
35,7%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,8
punti su base annua.
mercoledì 26 novembre 2014
Ricchi e poveri: la crisi aumenta le diseguaglianze
Il rapporto Oxfam "Partire a pari merito" dimostra
che la recessione non è per tutti. Anzi, gli anni di declino economico hanno
visto aumentare la concentrazione di grandi patrimoni. A discapito dei più
poveri, e dello sviluppo economico
Christian Benna
Ricchi e poveri: la
crisi aumenta le diseguaglianze La crisi
è una grande opportunità. È dal 2008 che economisti, scienziati e politici
ripetono a perdifiato questo mantra dal
sapore antidepressivo. E infatti, per qualcuno, gli anni di declino economico
sono stati un vero affare. Secondo la classifica dei super ricchi di
Forbes, i miliardari del pianeta sono
raddoppiati: erano 793 nel 2009 oggi sono 1645.
E non solo. Tra il 2013 e il 2014, le 85 persone più ricche al mondo
hanno aumentato la loro ricchezza di 668
milioni di dollari al giorno, quasi mezzo milione di dollari al minuto. Negli
ultimi 4 anni la ricchezza aggregata degli attuali miliardari è aumentata del
124% e ora è balzata a 5.400 miliardi di
dollari, pari a due volte il Pil di paesi avanzati, come la Francia. Purtroppo
il resto del pianeta non può brindare con vecchi e nuovi miliardari. Perché,
nello stesso lasso di tempo in cui sono
prosperate le grandi fortune, la povertà
si è diffusa sempre di più su scala globale.
Tanto che gli 85 super miliardari posseggono la stessa
ricchezza della metà della popolazione più povera al mondo. Numeri e analisi
del divario tra ricchi e poveri sono contenuti nello studio di Oxfam:
"Partire a pari merito: eliminare la disuguaglianza estrema per eliminare
la povertà estrema", una fotografia sul mondo che viaggia a due velocità.
Miraggio benessere
Il gap tra ricchi e poveri è sempre più profondo. Infatti 7
persone su 10 vivono in paesi in cui il divario tra indigenza e benessere è
maggiore di quanto non fosse 30 anni fa. Secondo Winnie Byanyima, direttore
esecutivo di Oxfam International, il solco non è solo un problema di giustizia
sociale, ma anche di sviluppo economico. "Questi dati - ha detto Winnie Byanyima - ci mostrano una
realtà che non possiamo evitare di vedere: l'estrema disuguaglianza economica
oggi non è uno stimolo alla crescita, ma un ostacolo al benessere dei più.
Finché i governi del mondo non agiranno per contrastarla, la spirale della
disuguaglianza continuerà a crescere, con effetti corrosivi sulle istituzioni
democratiche, sulle pari opportunità e sulla stabilità globale". Che gli argini alla povertà siano sempre più sottili e fragili lo
denunciano anche le Nazioni Unite nel report "Inequality matters",
prendendo spunto dal caso dell'India, la potenza economica emergente -
capace di sfornare tycoons miliardari
- ma con buona parte della
popolazione a rischio denutrizione. Nel 2009 tre quarti della popolazione del
subcontinente cercava di sfamarsi con
meno di 2400 calorie al giorno, mentre
negli anni ottanta la povertà estrema riguardava il 54% degli indiani. E il numero degli indigenti in Africa
Subsahariana è aumentato da 376 milioni del 1999 a 414 milioni di oggi.
Povertà è donna
Sono appena 23 le
donne con ruolo di amministratore delegato della lista Fortune 500 e sono solo 3 fra le 30 persone più ricche.
Nella fascia altissima della scala sociale le pari opportunità restano un
miraggio a quasi tutte le latitudini. In quella bassa è invece una questione di
sopravvivenza che vede le donne in fondo alla classifica dell'ingiustizia
sociale. Il divario salariale tra
uomini e donne rimane molto ampio in
tutto il mondo: a parità di tipologia di lavoro la retribuzione femminile media
è inferiore a quella maschile dal 10 al 30%, in tutte le regioni e in tutti i
settori. Questo divario, fa notare
Oxfam, sta diminuendo, ma all'attuale
ritmo di riduzione ci vorranno almeno 75
anni per concretizzare il principio della parità di salario a parità di lavoro.
E poi sono 600 milioni le donne, pari al
53% delle lavoratrici del mondo, che non
hanno la sicurezza del posto lavoro e generalmente non sono tutelate dalla
legge.
Salario
minimo e Welfare
Tra le raccomandazioni fatte da Oxfam nel report per uscire
dalla spirale della povertà ci sono la
necessità che gli Stati del promuovano politiche tese a garantire un salario
minimo dignitoso; ridurre il divario tra le retribuzioni di uomini e
donne; assicurare reti di protezione
sociale e accesso a salute e istruzione gratuite per i loro cittadini. L'accesso
a servizi essenziali gratuiti è ritenuto fondamentale per rompere il ciclo
della povertà tra le generazioni. Basterebbe poi l'1,5% delle super-ricchezze basterebbe per
garantire istruzione e sanità a tutti i cittadini dei paesi più poveri. Oxfam
calcola che una tassazione di appena l'1,5% sui patrimoni dei miliardari del
mondo, se praticata subito dopo la crisi finanziaria, avrebbe potuto salvare 23
milioni di vite nei 49 Paesi più poveri fornendo loro il denaro da investire in
cure sanitarie.
L'Italia
non s'è desta
Il divario tra sud e nord del mondo è sempre più accentuato.
Ma il fenomeno dilaga anche nei paesi avanzati. E purtroppo anche in Italia.
Secondo l'OCSE, da metà degli anni '80 fino al 2008, la disuguaglianza
economica è cresciuta del 33% (dato più alto fra i paesi avanzati, la cui media
è del 12%). Al punto che oggi l'1% delle persone più ricche detiene più di
quanto posseduto dal 60% della popolazione (36,6 milioni di persone); mentre
dal 2008 a oggi, gli italiani che versano in povertà assoluta sono quasi
raddoppiati fino ad arrivare a oltre 6 milioni, rappresentando quasi il 10%
dell'intera popolazione. Secondo la Coldiretti sono 4 milioni gli italiani che
chiedono un aiuto per mangiare. Per la
Cia, la confederazione degli agricoltori, le famiglie che hanno tagliato gli acquisti
alimentari sono addirittura il 65% del totale.
Povero Gini
Corrado Gini
(1884-1965) è stato uno statistico italiano di fama internazionale. La
sua notorietà, oltre al fatto di aver diretto per primo la neonata Istat (dal
1926 al 1932), è legata anche all'indice
che porta il suo nome e che misura la concentrazione delle disuguaglianze. Il
coefficiente di calcolo è stato sviluppato da Gini nel 1912 sulla base
delle differenze di reddito, il cui valore può variare tra zero e uno,
oppure può essere espresso in
percentuali da 0% - 100%. Valori bassi indicano una distribuzione omogenea, mentre valori alti una
distribuzione più disuguale. Con la
soluzione di Gini, la statistica sociale esce dalle variabili "mediane"
(che rappresentante la maggior parte della popolazione, come il reddito
procapite) per analizzare invece le differenze. Fino a ieri questo termometro
misurava le distanze tra mondo industrializzato e quello in via di sviluppo.
Oggi è solco sempre più profondo che divide l'Italia. L'indice di disuguaglianza nel nostro paese è
pari 0,32 a livello nazionale, 0,34 nel Sud. Il che vale a dire che il 20% più
ricco delle famiglie percepisce il 37,7% del reddito totale, mentre al 20% più
povero spetta il 7,9%.
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